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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2012 alle ore 14:47.

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di Morya Longo
Quando nel 2008 la crisi finanziaria mordeva già gli Stati Uniti, e Lehman Brothers affondava come un moderno Titanic, tutte le autorità Usa invocavano regole più stringenti per i giganteschi mercati dei derivati. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, chiedeva a gran voce che le normative cambiassero in maniera fondamentale. L'allora presidente della Sec Christopher Cox gli faceva eco, denunciando con tono severo che i derivati non erano regolamentati «nella maniera più assoluta».

Peccato che gli stessi protagonisti solo pochi anni prima si dichiarassero fermi sostenitori di regole light per i derivati. «Si tratta di strumenti importanti – diceva con disinvoltura nel 2005 Bernanke –, perché permettono di diversificare e spostare i rischi verso chi li sa gestire». «Mi preoccuperebbe se i derivati venissero considerati come il Diavolo dal Congresso», diceva Cox qualche anno prima.

Ormai sono passati cinque anni dall'inizio della crisi, e anche da quelle invocazioni di regole stringenti. Qualcosa è stato fatto. Ma non abbastanza. E ancora, nel 2012, accade che una banca come JP Morgan usi i derivati in maniera così aggressiva da perdere due miliardi di dollari in sole sei settimane. Facendo riemergere, come fiumi carsici, nuove immancabili richieste di regole. Che, come fiumi carsici, molto presto torneranno nel dimenticatoio. Fino al prossimo scandalo.

Nove volte il mondo
Eppure non servirebbe un genio della finanza per capire che i mercati dei derivati andrebbero regolamentati veramente. Non demonizzati, certo. Ma neppure lasciati allo stato brado come lupi affamati. Basta guardare i numeri, per capirlo: le ultimissime statistiche della Bri, aggiornate a dicembre 2011, calcolano che l'intero mercato di questi strumenti ammonti a 647 mila miliardi di dollari di valore nominale. Ancora più dei 466mila miliardi dell'ultima rilevazione (più vecchia) realizzata dall'Isda. Si tratta di un numero 14 volte più grande della capitalizzazione di tutte le Borse del globo. E nove volte più grande del Pil del mondo intero. È vero che il reale rischio, cioè il valore netto, è molto inferiore. Ma queste cifre restano enormi, troppo scollate dall'economia reale.

Ovvio che non tutti i derivati siano meri strumenti per speculare. Anzi, si tratta in realtà di contratti che sono stati inventati con uno scopo nobile: gestire i rischi. La stragrande maggioranza di questi strumenti, pari a 504mila miliardi di dollari, è costruita su tassi d'interesse: serve dunque a chi vuole trasformare un finanziamento a tasso fisso in variabile, o viceversa. Il resto è dato da derivati su valute (63mila miliardi), su azioni (6mila) e su materie prime (3mila). Ci sono poi i credit default swap (che valgono 28mila miliardi di valore nominale): si tratta di polizze assicurative, usate dagli investitori per coprirsi dal rischio di fallimento di qualunque debitore al mondo. Insomma: non esistono derivati "cattivi". Cattivo, però, può esser l'uso che viene fatto.

Finanza distorta
I derivati di tasso (interest rate swap) sono per esempio finiti in molte inchieste della magistratura: l'accusa, molto spesso, è che le banche li abbiano venduti a Enti locali o a Casse previdenziali facendo "la cresta" con costi occulti. Insomma: aiutavano Comuni e Regioni a trasformare un mutuo o un bond da tasso fisso a variabile, ma nel frattempo si intascavano decine di milioni di euro a sbafo. Ma i più bersagliati dalle critiche sono i credit default swap: perché da strumenti di gestione dei rischi sono diventati mezzi per speculare. Lo dimostra il fatto che troppo spesso esistono più Cds che debiti da assicurare: il gruppo francese Carrefour, prendendo un nome a caso, ha 13 miliardi di euro debiti (dato di Bloomberg) e 28 miliardi di dollari di Cds lordi (dato Dtcc).

Ovvio che tutto questo non va bene. I derivati sono tutti scambiati over-the-counter, cioè fuori da qualsiasi Borsa regolamentata. Sguazzano nell'opacità più totale: solo le grandi banche americane, che controllano circa la metà dell'intero mercato, sanno veramente cosa ci sta dietro. Loro da questa opacità guadagnano (anche se a volte cascano come JP Morgan). Per questo si sono sempre opposte a vere regole stringenti, facendo leva sulle debolezze del mondo politico più attento agli interessi delle lobby che a quelli dei cittadini. E così siamo arrivati al 2012, con l'ennesimo scandalo. Con gli ennesimi scandalizzati e con le ennesime richieste di regole. Il deja vu continua...
m.longo@ilsole24ore.com

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