Europa e mondo

Farmaci, innovazione e sostenibilità, Rasi (Ema): «Il futuro è già iniziato, servono nuovi modelli di finanziamento per la sanità»

di Rosanna Magnano

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24 Esclusivo per Sanità24

Immunoterapie, terapie geniche, nuovi antitumorali, cellule staminali, robotica. La sanità del futuro è alle porte. E l’innovazione farmaceutica è una delle principali chiavi di volta della salute dei cittadini. Ma i costi sono altissimi e metteranno a dura prova la sostenibilità dei sistemi sanitari e i loro modelli, insieme ad altre variabili come l’invecchiamento della popolazione. Allo stesso tempo si diffonde un pericoloso clima di diffidenza verso la scienza e le istituzioni. E l'Europa della salute ha nuove sfide da affrontare, come l'anti-microbico resistenza, la prevenzione e il finanziamento di filoni di ricerca considerati meno remunerativi. Insomma garantire ai pazienti un rapido accesso ai nuovi farmaci e allo stesso tempo assicurare la tenuta delle cure pubbliche e universalistiche (almeno in Italia) è l'enigma del momento. Ne parliamo con Guido Rasi, direttore esecutivo dell'Ema, l'Agenzia europea dei medicinali.

Professor Rasi, pensa che l’Europa debba sviluppare una politica comune per garantire equità di accesso alle terapie innovative?
Senz'altro una visione olistica sarebbe più efficace. L'Europa si sta muovendo, c'è una proposta della Commissione Ue di iniziare a unificare uno dei tre livelli che intervengono nello sviluppo finale del farmaco, quello dell'Health technology assessment (Hta), cioè della definizione del valore relativo di un farmaco o di un qualsiasi intervento terapeutico. Noi lavoriamo sul primo livello, che definisce il beneficio-rischio di un trattamento. Il secondo livello e’ quello dell’Hta. Il terzo livello serve a valutare qual è il valore aggiunto terapeutico di un trattamento per definirne il prezzo. Mentre sul beneficio-rischio sappiamo bene che dati vogliamo per autorizzare un farmaco, per ammetterlo alla rimborsabilità i vari sistemi devono sapere come performa questo farmaco rispetto ad altri. Il problema è che questa evidenza noi non la possiamo richiedere, la possono richiedere gli Stati membri, e sarebbe bene farlo in parallelo, cioè saperlo dall'inizio dello sviluppo e non farlo in sequenza come avviene adesso in maniera molto inefficiente. Il terzo livello è come trasformare questo in un valore e questo cambia a seconda di dove viene erogato il servizio. In un posto ad alta densità di erogazione dei servizi come l'Italia ha un costo, in Finlandia dove i centri sono a una distanza di 400 chilometri, neve permettendo, i costi sono diversi. Quindi il terzo livello non può interferire con la sovranità degli Stati, il primo e il secondo devono integrarsi. L'Europa sta facendo questo, non è facile ma va fatto.

Quindi non si può arrivare a un prezzo europeo?
È difficile pensare di arrivare ad un prezzo comune, piuttosto si deve lavorare alla creazione di cluster di prezzi per regioni, seguendo indicatori come epidemiologia o similitudini nei sistemi di erogazione nazionale.

Lei ha dichiarato in una recente convention di Farmindustria nell’ambito del G7 Salute che “se non si troverà una soluzione le industrie farmaceutiche continueranno a introdurre sul mercato terapie innovative a cui nessuno potrà accedere”. Quale potrebbe essere una soluzione o un ventaglio di possibilità?
Noi agiamo sul primo livello, il beneficio-rischio. Lì possiamo promuovere delle efficienze, abbiamo varie iniziative come il Prime, PRIority Medicines, l'orphan designation, la designazione delle indicazioni pediatriche e così via. Che cosa significa? Che nell’arco di un processo che dura 10-15 anni cerchiamo subito l’interazione precoce, early engagement, per fornire a chi vuole sviluppare un farmaco informazioni su quali evidenze debba generare. Questo può produrre grosse efficienze. Basta ricordare un numero: il 30% delle industrie che ricevono questo advice decide di rinunciare allo sviluppo. Che vuol dire riallocare le risorse in progetti più promettenti e vuol dire non mettere i pazienti a rischio di partecipare a studi clinici poco utili e rischiosi. Questa efficienza però non viene tradotta nei due livelli successivi. Ed è questo che deve entrare a sistema. Faccio un altro esempio. Le terapie che stanno arrivando adesso promettono di cambiare la vita dei pazienti per sempre. Parlo delle terapie geniche, delle immunoterapie e parlo delle terapie cellulari. Naturalmente hanno dei costi altissimi. Innanzitutto perché la ricerca costa sempre di più, e poi perché sono destinate a fette di popolazione sempre più piccole. Cosa significa questo? Se una terapia costa un milione e mi promette che avrò un beneficio per 20-30 anni. O aspetto 30 anni per approvare il farmaco e vedere se era vero. O invento dei metodi di pagamento che si diluiscano nei 30 anni. In altre parole il modello di finanziamento dell’erogazione del servizio pubblico deve adattarsi un po’ a quella che è l’evoluzione che la scienza propone. Non solo. Alcune evidenze le posso generare solo dopo che ho rilasciato il farmaco, quindi devo prevedere da prima quali sistemi di monitoraggio, la cosiddetta farmacovigilanza, metto in atto da subito per garantire che chi paga e chi riceve il servizio abbia effettivamente la promessa di terapia che si aspetta. E in aggiunta deve dare a me regolatore la possibilità di correggere rapidamente il tiro sulla base di evidenze che si possono avere solo dopo l’entrata in commercio del farmaco.

Quindi si parla sempre di condividere il rischio tra pagatore e impresa?
Questa è una delle possibilità. Fare i cosiddetti managed access. Cosa che l’Italia ha già introdotto da una decina d’anni, naturalmente adattandoli continuamente alle nuove terapie e ai nuovi sistemi di erogazione del servizio sanitario.

I vaccini sono un tassello fondamentale della prevenzione, come spiega lo spirito antiscientifico che si diffonde nell’opinione pubblica e quale può essere l’antidoto alla diffidenza dei movimenti no vax?
Il problema è che le sorgenti delle informazioni ogni tanto diffondono informazioni non controllate. Ricordo solo tre casi: uno è quello di Andrew Wakefield, il medico che per farsi grande ha truccato dei dati e ha messo l’autismo in correlazione con i vaccini. Un concetto ampiamente sconfermato da dati che sembrano dimostrare addirittura l’inverso, cioè che tra i vaccinati ci sono meno casi di autismo. Questa è una notizia che ha destabilizzato. L’altra voce fuori controllo è stata quella di pseudo-scienziati che riportano che arsenico o alluminio sono presenti nei vaccini in misura venti volte a quella raccomandata nell’acqua. Ma si dimenticano piccoli dettagli: quella raccomandata per l’acqua va per litri presi nell'arco di cinque-dieci anni. Parliamo di 2-3mila litri d’acqua. Una persona che fa dieci vaccini per 70 anni prende al massimo mezzo litro di vaccino. Quindi quando manca il dato quantitativo, dire venti-trenta volte spaventa inutilmente. Il terzo caso si è verificato sull’Hpv, il papilloma virus, con pochi medici danesi che si sono inventati una nuova sindrome, segnalando effetti sulla salute in seguito alla somministrazione del vaccino. Passata la moda, il problema è sparito però milioni di ragazze avranno il cancro alla cervice perché si sono spaventate. L’antidoto vero è l’informazione, la parola magica per riprendere credibilità. Io non penso che i no vax siano gente malvagia. È gente spaventata e tocca a noi dargli le giuste indicazioni. È molto facile confutare le stupidaggini che si scrivono sul web. Ci prendiamo la colpa di non averlo saputo fare bene e ci proponiamo di farlo meglio.

Si paga l'isolamento della scienza, una chiusura che ha generato estremismi anche sulla sperimentazione animale.
Bisogna comunicare di più e meglio, la scienza deve uscire dalla torre d’avorio e ammettere che ci sono problemi per ogni terapia. Spiegare che quello che noi facciamo, che è il nostro pane quotidiano, è analizzare il rischio-beneficio. È chiaro che quando approviamo un farmaco, il beneficio è superiore al rischio. Ma non vuol dire mai che il rischio è zero. Dobbiamo spiegarlo meglio.

Ritiene che l’obbligo vaccinale sia la strada giusta per ottenere una copertura adeguata contro malattie importanti e garantire la salute della popolazione?
Chiaramente non entro nella decisione politica, ma da scienziato dico questo: quando si arriva vicino a perdere il cosiddetto effetto gregge, che protegge sostanzialmente i più deboli, quelli che non possono ricevere il vaccino, o sui quali il vaccino non funziona, qualsiasi drastica misura diventa veramente necessaria. Nel caso dell’Italia, credo che sul territorio in alcuni casi si fosse troppo vicino alla perdita dell'effetto gregge. È evidente che non sono accettabili moralmente morti per tetano, come è successo qualche giorno fa. Non è accettabile nel 2018 che la gente muoia di morbillo perché non è vaccinata. È una cosa che non riesco ad accettare, come medico e come genitore. Ora probabilmente, con una campagna di informazione mirata di quattro o cinque anni si potrebbe pensare anche di abrogare l’obbligo, perché sicuramente è più bello e più nobile che ci sia una responsabilità collettiva e sociale di proteggere se stessi e le altre persone, e non un obbligo. In questa situazione è probabilmente necessario l’obbligo.

Quindi lei ritiene necessario l’obbligo come misura di emergenza?
Laddove c’è una società responsabile, correttamente informata e civile, che si preoccupa di sé e degli altri probabilmente non c’è bisogno dell’obbligo. Tante cose non sono obbligatorie in Italia eppure le facciamo per responsabilità civile.

La pressione migratoria diventa un tasto sempre più sensibile negli Stati Ue, e l’Italia è la prima linea di frontiera. Che cosa può fare l’Europa per affrontare in modo adeguato la presa in carico della salute delle persone migranti e la prevenzione di malattie trasmissibili?
Bisognerebbe investire in screening al momento dell’entrata nel territorio europeo, sapere esattamente che patologie ci sono, alcune già le sappiamo. Organizzare cordoni sanitari e avere un’orchestrazione di livello maggiore, perché ormai i flussi non sono più inaspettati. Si sa che ci sono e vanno gestiti, per solidarietà verso chi arriva e per noi che li riceviamo. La vaccinazione è l’arma biologica più naturale, più economica ed etica ed è la prima frontiera. Naturalmente non ci sono solo malattie infettive ci sono anche altre malattie.

Un'altra sfida è l’antibiotico-resistenza, un fenomeno molto pericoloso per la salute pubblica, causato da un mix di inappropriatezza prescrittiva, sistemi produttivi della filiera zootecnica evidentemente da correggere e impatto ambientale dei farmaci. Quale sarà la strategia Ue per contrastare il fenomeno?
La strategia europea si sta definendo. Ci sono più aspetti: uno è l’inappropriatezza d’uso che accelera la resistenza. Se si gestisse bene questo, si potrebbero guadagnare diversi anni, forse anche una decade sull’inevitabile ascesa delle resistenze. L’uso dei vaccini può senz’altro ritardare ulteriormente. Ci vuole una strategia, l’Europa si sta muovendo, ci sono fondi pubblici a disposizione. Quello che sta facendo l’Ema insieme all’Ecdc e all’Efsa è di coordinarsi, fornire i dati di consumo e fornire linee guida di appropriatezza d’uso. Dopodiché l’implementazione dipende dagli Stati membri. Questo è un aspetto. Il secondo è quello di avere nuove armi, nuovi farmaci.

Che ruolo può avere la ricerca su nuovi antibiotici. A che punto siamo?
La ricerca sui nuovi antibiotici non è a buon punto, non abbiamo buone notizie. Il problema è che il sistema non è incentivante perché l’attuale produzione di antibiotici non sarebbe remunerativa per l’industria. Come ho detto prima, lo sviluppo di un farmaco dura dieci-quindici anni. Per noi regolatori non ha molto senso forzare l’approvazione di qualche settimana. Il problema è politico: quello di trovare gli incentivi adeguati per promuovere la ricerca, che deve andare oltre la tradizione. L’antibiotico ormai risale all’osservazione casuale di Fleming, probabilmente le conoscenze molecolari attuali potrebbero aprire nuove frontiere completamente innovative nell’approccio contro virus e batteri. Bisogna investire massivamente e sapere che poi ci sarà una remunerazione. O investire soldi pubblici in piattaforme. L’Europa con Imi (Innovative medicines iniziative) sta lavorando nella direzione giusta. C’è una collaborazione molto importante tra Ema, Fda e l’autorità giapponese Pmda per trovare tutte le soluzioni regolatorie che facilitino e incoraggino questa ricerca. Poi però c’è il livello politico. E i regolatori su questo punto non hanno nessun ruolo.

Perché la ricerca sui nuovi antibiotici non può essere remunerativa?
Un antibiotico oggi costa qualche decina di euro a terapia. Se entra una terapia nuova i sistemi sanitari che la erogano vogliono paragonarla ai prezzi dell’attuale terapia e inoltre scoraggiare l’uso per non favorire l’insorgenza di nuove resistenze. Naturalmente non è conveniente investire in uno sviluppo che oggi costa fino a due miliardi per poi vendere il prodotto a un prezzo non remunerativo e per giunta non venderlo se non nei casi limite, come clinicamente sarebbe giustissimo. Bisogna trovare altre formule. Non è compito del regolatore. Se ci mettiamo attorno a un tavolo qualche idea viene anche ai regolatori, ma non tocca a noi neanche dirlo.

Quindi servirebbero delle partnership o un ruolo più forte della ricerca pubblica?
Oppure un diverso metodo di pagamento o una politica di prezzi diversa. Se accettiamo che una terapia per il cancro costa centinaia di migliaia di euro perché è per pochi pazienti, allora possiamo accettare prezzi più alti per un antibiotico che viene usato in pochi casi. Ma queste sono le considerazioni di un dilettante.

Hiv ed Epatite C sono stati gli esempi più evidenti dell’impatto “miracoloso” dell’innovazione farmaceutica sulla salute delle persone. Quali saranno i prossimi farmaci-spartiacque?
Credo senz’altro le terapie cellulari e le terapie geniche e ora abbiamo il primo esempio di prodotto che unisce le due cose. Sono le Car-t cells. Cosa succede. Di fatto c’è un aspetto manifatturiero, per cui lo scheletro è universale e può essere fatto ovunque su mandato di chi le brevetta, poi viene ingegnerizzata una parte del gene del paziente, usando come substrato i globuli bianchi, per poi somministrare la terapia per lo specifico cancro da cui è colpito il paziente. Quindi è un’applicazione della medicina personalizzata. Questo imporrà un cambiamento radicale delle modalità di erogazione della sanità, dei ruoli degli operatori sanitari e delle modalità di finanziamento. In pratica il futuro è già iniziato.

Ci sono speranze per Alzheimer e demenze?
Su Alzheimer e demenze le speranze ci sono sempre, ma novità sostanziali non ce ne sono. C’è un altro grandissimo problema. Che riguarda il finanziamento della ricerca e della sanità pubblica. Per essere efficaci, le cure per l’Alzheimer devono essere sostanzialmente preventive. Investire massivamente sulla prevenzione significa essere certi che quel paziente svilupperà la malattia se non trattato. Questo apre scenari di gestione della salute pubblica assolutamente nuovi e terribilmente complicati. Andranno trovate soluzioni completamente nuove. Non si possano applicare le soluzioni del millennio scorso per la sanità del futuro.

Come risponde alle contestazioni di chi solleva il rischio di possibili conflitti di interesse all’interno dell’Ema, alla luce del fatto che gran parte del finanziamento delle sue attività arriva dalle industrie farmaceutiche? Ritiene che spetterebbe direttamente agli Stati membri finanziare un’agenzia così fondamentale da punto di vista della salute pubblica e dei mercati?
Va fatta un’osservazione. Noi siamo pagati per dare opinioni scientifiche e poi un altro ente, la Commissione Europea autorizza o meno in base alla nostra opinione. L a nostra opinione è formulata da sette comitati, da un pannello di 3mila esperti, certificati sul conflitto di interesse, quindi diamo un’opinione che poi serve a chi ha sviluppato il farmaco per entrare in commercio e avere un beneficio. Ora vogliamo pagare con soldi pubblici un’opinione che poi serve alle industrie per andare sul mercato? Direi che sarebbe strano. Quindi è ottimo che le industrie farmaceutiche si paghino l’opinione. Se è positiva o negativa poi avranno un beneficio o no. Loro non pagano il risultato, pagano un’opinione che altri poi approvano, questo deve essere ben chiaro. D'altro canto è vero che l’individuo può avere comportamenti inadeguati. Ma il macchinario dei sette comitati, in cui sono rappresentati tutti i 27 paesi rende veramente difficile allineare tutti su una stessa direzione. Quindi questo è già una garanzia. Concordo che questo dubbio possa essere legittimo. Ma dichiaro con grande orgoglio che noi siamo i campioni mondiali della trasparenza. L'Ema è stato il primo ente regolatore al mondo a pubblicare le agende e a pubblicare le opinioni. A dare accesso ai dati clinici che usiamo. È giusto che noi diamo conto di quali dati usiamo e di come siamo arrivati a una decisione. Noi abbiamo incominciato a pubblicare i dati senza una base legale. Contro il parere di mezza Europa. E questo credo che dia ulteriori rassicurazioni. E le do un’ultima chicca: noi siamo condannati a essere equi. Perché se noi diamo un parere troppo generoso, il primo che ci salta al collo è il competitor di un’altra azienda. Quindi il problema del conflitto di interessi nell’Ema non c’è.


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