«Sono 41 anni che mi occupo di petrolio e non ho mai visto nulla del genere. Il che depone bene per la generale sicurezza delle piattaforme sul Golfo del Messico. Ma, a mio parere, le proporzioni di questa tragedia finiranno per andare al di là di ogni immaginazione».
In 41 anni, Matthew Simmons ha messo in piedi la Simmons & Company, banca texana d'investimenti specializzata in energia. È stato consulente di George W. Bush, è membro del National Petroleum Council e del Council on Foreign Relations. Ma ha anche fama di vedere nero sul futuro dell'energia: il suo libro "Twilight in the desert", che profetizza un imminente crollo della produzione petrolifera saudita, è riuscito a mandare su tutte le furie la casa reale di Riad.

A suo dire, il problema non sta nella sicurezza delle piattaforme offshore. Ma nel fatto che il petrolio "facile" al largo della Louisiana e del Texas sta continuando ad esaurirsi, spingendo le compagnie a uno sforzo tecnologico alle soglie dell'impossibile: la ricerca del greggio a grandi profondità.

«Il primo pozzo offshore risale al 1947», racconta Simmons, raggiunto per telefono nella sua abitazione di Houston. «Fino alla fine degli anni Ottanta, la produzione è rimasta in acque superficiali. Poi, visto che l'output calava, le major si sono spinte sempre più in là. Nel 1995, da sei impianti deepwater uscivano 186mila barili al giorno. Nel 2003 il record: 20 piattaforme e 737mila barili. Due anni fa, seppur con 24 impianti, eravamo tornati sotto i 600mila. Puntualmente aumentando la profondità, ben oltre i tre chilometri». Fra i petrolieri, la nuova parola di moda era diventata: ultra-deepwater.

Certo, è stato un incidente. «Irripetibile, come l'esplosione dello shuttle Challenger. Fatalmente, l'impianto Deepwater Horizon della Bp era fra i più tecnologicamente avanzati che ci siano. Però non "pescava" soltanto sotto a 1,6 chilometri di mare, ma si spingeva per altri 3,5 chilometri sotto la crosta terrestre: il profilo di rischio era altissimo, bisogna ammetterlo».
Purtroppo, i rischi non sono ancora finiti. «Nessuno sta dicendo la verità, sulla gravità della situazione. Credo che ci sia il serio rischio che a quella profondità, a quella pressione, a quella temperatura (gelido il mare e caldissimi gli idrocarburi) e senza visibilità, sarà impossibile tappare la falla». Scusi, che intende dire? «Voglio dire che la perdita potrebbe anche andare avanti finché il greggio non si esaurisce».

Simmons cita il caso del pozzo messicano Ixtoc, che nel 1979 rilasciò petrolio nel Golfo per nove mesi, «finché il greggio non si esaurì». Altre fonti sostengono che versò per nove mesi, ma che la falla fu richiusa. Tuttavia, anche solo nove mesi con la Deepwater Horizon che riversa in mare almeno 5mila barili al giorno, sarebbero una bella tragedia.

«Dalle prime analisi pare che sia petrolio leggero, ma carico di asfaltene, la materia prima dell'asfalto. Se la perdita dovesse andare avanti a lungo, potrebbe impedire il passaggio delle grandi petroliere e tagliare drasticamente le importazioni americane». Sembra assurdo, ma è vero: il Loop, il porto petrolifero della Lousiana, è l'unico in grado di accogliere le petroliere più grandi e collega il 50% del petrolio trattato dalle raffinerie negli Stati Uniti.

La sete di petrolio, «ci ha portati troppo in basso nell'oceano e troppo vicini, o forse troppo oltre, alla soglia di rischio», conclude il banchiere texano. È l'eterna rincorsa al mito americano della sicurezza energetica, che aveva spinto Obama a lanciare una campagna di perforazioni lungo la costa orientale, ormai sonoramente ritrattata. «La sicurezza energetica è un ossimoro», dice Simmons. «Semmai, abbiamo un problema di insicurezza energetica».

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