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Google, la possibile crisi del gigante bulimico

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Google, la possibile crisi del gigante bulimico

Google, Google e ancora Google. Se il business dell'advertising ha da qualche anno un solo dominatore, quasi protagonista unico sul Web fino all'incredibile sviluppo dei social network, questa prospettiva potrebbe presto cambiare. E il gigante bulimico di Mountain View potrebbe presto trovarsi ad affrontare sfide a cui non è perfettamente preparato, in terreni dove c'è una forte concorrenza.

Ad affermare che “il re è nudo” è Farhad Manjoo, un giornalista del New York Times che, sul proprio blog ospitato dall'autorevole giornale statunitense, arriva a queste conclusioni partendo da alcuni concetti abbastanza semplici. Il più importante è che il colosso della ricerca Internet deve gran parte dei propri guadagni a quello che è il “search advertising”. Ovvero, la pubblicità che viene visualizzata dal motore di ricerca ogni qual volta si digitano dei termini nell'apposito spazio e che poi, punta direttamente al sito di un'azienda o di un venditore. E' un concetto che è simile a quello che, in forma cartacea, avveniva tramite le pagine gialle o gli elenchi dei punti vendita.

Ma il mercato della pubblicità non è solo quello. Gran parte dei ricavi derivano da quello che viene chiamato “brand advertising”, che è la pubblicità che stimola le emozioni. E che da una emozione tenta di creare un bisogno. Tipicamente, la brand advertising è quella presente sui giornali o sulla televisione: dallo spot del detersivo che lava più bianco a quello dell'automobile di lusso che ci consente di scoprire il lato bello del mondo.
In questo settore Google, che ottiene il 90% dei suoi ricavi dal search advertising, è abbastanza spiazzata. O meglio, è sì presente –soprattutto grazie a YouTube- ma lavora in un mercato dove la concorrenza esiste, è forte e ben agguerrita. Insomma, è in una posizione che a Mountain View non sono abituati a coprire ormai da circa un decennio: di rincorsa.

A guardar bene, ricorda Manjoo, questo fatto può anche essere notato grazie ai numeri di bilancio del colosso californiano che, seppur solidissimi, mostrano comunque qualche crepa a chi sa ben osservare. A fronte di un fatturato di 14,4 miliardi di dollari nel 2014, con ricavi in aumento del 19% rispetto all'anno precedente, negli ultimi anni i ricavi ottenuti con il search advertising sono calati del 20% all'anno circa, e nel 2014 le azioni si sono ribassate dell'8%.
Certo, ricorda ancora Manjoo, per ora non c'è nulla di preoccupante. Ma Google opera nel settore dell'alta tecnologia, dove le dinamiche sono velocissime e che in passato ci ha più volte sorpreso con ribaltoni (vedi la crisi di Hewlett Packard o di Rim-BlackBerry e il ridimensionamento di Microsoft, un tempo stradominante) o addirittura cadute senza possibilità di recupero, come quelle di Digital Equipment o Wang.
Anche nelle stanze del potere a Mountain View hanno piena coscienza di questo problema: tanto è vero che Larry Page, cofondatore di Google e Ceo, si è sganciato dal seguire i prodotti tradizionali di Mountain View per dedicarsi a compiti più strategici. E questo spiega anche perché le spese di ricerca e sviluppo di BigG sono passate da 2,1 miliardi di dollari nell'ultimo quarto del 2013 a 2,8 miliardi un anno dopo.

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