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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2011 alle ore 07:56.
L'ultima modifica è del 05 dicembre 2011 alle ore 08:04.

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Ora comincia per le forze politiche la traversata del deserto. Sarà lunga e difficile. Nel giorno di Mario Monti e della manovra a cui è appesa, nelle parole del premier e nelle attese di tutti, la salvezza dell'Italia, la debolezza dei partiti attuali è apparsa nella sua esatta dimensione.

La maggioranza "de facto" Pdl-Pd-terzo polo che sostiene l'esecutivo può solo continuare a coprire le spalle al Governo d'emergenza in Parlamento.
A maggior ragione adesso che Palazzo Chigi ha dimostrato di aver coraggio. In fondo è questa la prova di maturità che viene chiesta ad Alfano, Bersani e Casini. E tutti e tre sono ben decisi a fornirla, quali che siano le asprezze di un intervento finanziario senza precedenti, consapevoli che non ci sono sul tavolo alternative praticabili. Le Camere approveranno quanto prima le misure varate ieri sera, sulla base della stessa maggioranza non strutturata e trasversale che ha votato la fiducia.

Va detto che Monti ha saputo rivolgersi agli italiani con il linguaggio alto e drammatico adeguato alla circostanza. Mai come stavolta si è avuta l'esatta percezione del «governo del presidente», forte della sua relazione speciale con il Quirinale, e dunque dei mutamenti intervenuti sulla scena pubblica. Sempre rispettoso verso il Parlamento, il premier si è riferito ai partiti (anzi, alla «politica») con il tono di un benevolo Lord Protettore che ha il diritto di non essere disturbato nel suo lavoro, perché grazie a lui le stesse forze politiche potranno ritrovare in futuro un rapporto positivo con i cittadini.

Anche questa scena aveva caratteristiche del tutto inedite, in linea con l'emergenza complessiva. Si conferma il dato di fondo: quello che sta accadendo segna la fine degli assetti politici come li abbiamo conosciuti dal dopoguerra a oggi. «Continueremo a tenere saldo il timone nel mare in tempesta» dice Bersani. Due termini («timone» e «tempesta») che ritornano più volte nel lessico non troppo fantasioso dei nostri politici, a indicare senso di responsabilità. Eppure la fotografia non è veritiera. Il timone della nave Italia, per restare nella metafora, non lo hanno in mano le segreterie partitiche: lo tiene saldo in pugno il premier «tecnico».

È stato lui ad annunciare l'abolizione delle giunte provinciali e alcune scelte di trasparenza, utili a rassicurare l'opinione pubblica sulla moralità dell'esecutivo. E poi altri dettagli che pure tengono conto della sensibilità dei partiti: l'imposta "una tantum" sui capitali scudati, l'aggravio per certi beni di lusso, l'indicizzazione confermata per le pensioni più basse, alcune misure in favore della famiglia, il «no» ai condoni. D'altra parte, non c'è stato l'inasprimento dell'Irpef oltre i 75mila euro e nemmeno una vera e propria patrimoniale, provvedimenti invisi a un ampio spettro politico (ma ci sono parecchi interventi sul patrimonio).

In altre parole, i partiti non sono stati mortificati e una porzione delle loro richieste è stata accolta. Eppure è evidente che oggi il ruolo dei vecchi e nuovi leader è più che altro di contorno. I «riti della concertazione», come li ha definiti Monti, non sono in questo momento prioritari. E in nessun momento, nelle ultime settimane, i capi delle tre maggiori forze politiche sono apparsi padroni dell'iniziativa, capaci di offrire un'idea nuova e di fare un salto di qualità. Hanno subìto un po' attoniti la pressione dell'Europa e la nascita del «governo del presidente». Hanno atteso come il resto degli italiani le decisioni di Monti e hanno ascoltato le parole del premier: sia quelle che condannano i cattivi costumi passati, sia quelle che incitano a comportamenti virtuosi in Parlamento e nella società.

Per la prima volta dopo decenni i partiti risultano in sostanza fuori gioco. Senza rilevanti differenze fra centrodestra e centrosinistra. Il che impone loro in tempi brevi una profonda riorganizzazione, anche culturale. Semmai sono le forze populiste a ricavare un certo vantaggio dalla situazione. Di Pietro è di nuovo tentato dall'opposizione e se ne sta con un piede dentro e uno fuori. Ma è soprattutto la Lega a ritrovare i suoi antichi temi, compresa la secessione. Questa volta con un richiamo abbastanza incomprensibile al modello cecoslovacco e a un misterioso percorso morbido e «costituzionale» verso l'indipendenza del Nord. Tutto abbastanza inquietante, ma anche poco realistico. Del resto, i leghisti sono stati al governo tanto a lungo che la loro improvvisa riconversione al secessionismo suona posticcia o poco credibile.

Infine a sinistra c'è Vendola con una sua posizione autonoma, ma non facile da tenere nemmeno per lui. E in ogni caso il governo Monti rende anacronistiche tutte le alleanze a cui eravamo abituati fino a poche settimane fa. A destra è in frantumi il rapporto fra Lega e Pdl; sull'altro versante la famosa fotografia di Vasto (l'intesa Bersani-Di Pietro-Vendola) è stata ridotta a brandelli. C'è molto da fare per ricostruire delle serie proposte politiche, con gli accordi conseguenti. E un punto è certo. Dopo la traversata del deserto, l'Italia politica non sarà più quella che conoscevamo.

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