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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2012 alle ore 14:42.

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Mentre infuria la polemica sull'articolo 18, le imprese italiane che non ce la fanno più guardano con speranza alle riforme di Mario Monti. E' quanto emerge dallo sfogo affidato al Wall Street Journal da Cesare e Donata Novellone, alla guida dell'azienda milanese Amisco. Per imprenditori come loro, la riforma del lavoro "sarebbe almeno un inizio", scrive il quotidiano Usa in un articolo di Anne Jolis intitolato "Big Labor in Little Italy".

Gli imprenditori spiegano "come le riforme di Mario Monti potrebbero aiutare le imprese e perché ci vogliono altri cambiamenti". "Non possiamo continuare così", dice Cesare Novellone, che insieme alla sorella Donata dirige l'azienda, fondata dal padre nel 1936, specializzata nella produzione di bobine elettriche ed elettrovalvole. Secondo lui, alla fine Monti ce la farà, ma solo dopo avere superato qualche difficoltà.

"Oggi, se vuoi licenziare una persona, questa fa ricorso e il giudice ti costringe a riprenderla", dice Donata Novellone. Con le riforme di Monti, spiega il Wsj, i tribunali potrebbero obbligare i datori di lavoro a reintegrare i lavoratori se non sono d'accordo con la causa del licenziamento. Ma in tempi di crisi, in futuro le imprese potrebbero licenziare i lavoratori al "basso costo" di un'indennità pari a 27 mensilità.
"Sarebbe un grosso miglioramento", dice Donata. "Se puoi licenziare gente, puoi anche assumere gente. Oggi non puoi far nulla senza l'accordo dei sindacati".

Negli anni '80 e '90 in Italia e all'Amisco "eravamo come la Cina oggi". La lira italiana si svalutava ogni anno e l'azienda esportava senza problemi. Con l'euro, finito il trucco delle svalutazioni competitive, "dovevamo diventare più competitivi con nuovi sistemi di produzione, più automazione e con lo sviluppo di nuovi prodotti". Nell'ultimo decennio l'azienda ha recuperato competitività e ora registra margini di profitto a due cifre.

Ma Amisco ha dovuto ridurre la forza lavoro in Italia. "Un processo lungo". Ci sono voluti tre anni e "molti soldi". Da 230 dipendenti in Italia, l'azienda è passata a 170 dipendenti nelle due fabbriche italiane, più 80 dipendenti in una fabbrica aperta in Cina nel 2006. Ora conta di aprire un'altra fabbrica nella Repubblica Ceca.
Pur dicendo che proteggere i lavoratori è una buona cosa, Cesare Novellone punta il dito sulla rigidità delle leggi sul lavoro, che è "una delle ragioni per cui le imprese italiane sono così piccole". "Nessuno vuole crescere troppo in un singolo stabilimento produttivo, altrimenti i sindacati diventano troppo forti e cominciano a dirti cosa devi fare".

Nel mirino sono anche i costi del lavoro. All'Amisco, il costo del lavoro è in media di 28 euro all'ora, contro 8 euro nella Repubblica Ceca. Ciò fa una bella differenza nei prezzi al consumo. In Italia poi al lavoratore va circa la metà di quanto l'azienda spende per lui. "Il resto sono tasse, contributi previdenziali, sanitari e così via".

"Su questo fronte, finora Monti non è stato esattamente d'aiuto", nota il Wall Street Journal ricordando i nuovi aumenti delle tasse varati dal governo. "A Monti chiederei di ridurre il costo della forza lavoro", dice Donata Novellone. Amisco stima che cumulativamente versa il 50% dei propri profitti al governo, al netto del lavoro e altri costi.

Ma "più di tutto", sottolinea il Wsj, gli imprenditori vogliono quello che ogni politico italiano ha promesso: "Semplicità e prevedibilità". Donata Novellone lamenta che ogni due mesi ci sono leggi nuove, ogni tanto cambiano, talvolta sono retroattive. "La burocrazia ci sta uccidendo". Il carico delle scartoffie è tale che "Ci vogliono consulenti per ogni cosa".
Nonostante tutto, sarebbe "impensabile" per i Novellone lasciare l'Italia e stabilirsi altrove. Pur essendo entusiasti della Cina, dove due dei loro figli sono andati di recente a vedere la loro fabbrica a Shenzhen, sono contenti di stare a Milano. Dove se la possono prendere con i nostri politici: "C'è una grande differenza tra la politica italiana e l'industria italiana", dice Cesare. "Nell'industria, siamo bravi e abbiamo una forte determinazione imprenditoriale. Abbiamo solo una cattiva classe politica". "I politici non siamo noi. E l'Italia non sta per andare in bancarotta".

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