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Un «meccano» da costruire

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dopo Expo

Un «meccano» da costruire

La Milano post Expo è un meccano da costruire. I singoli elementi, però, sono già disposti sul tavolo. Esiste – nella sua attuale coesa solidità – la manifattura basata sul medium tech. E c’è la prospettiva della neo-industria.

Il medium tech costituisce allo stesso tempo l’ossatura di piena integrazione e il sistema nervoso di profonda connessione con il tessuto economico europeo. La neo industria è quella che gli economisti d’ispirazione tedesca e i consiglieri del back to manufacturing alla Casa Bianca definiscono Industry 4.0.

Una evoluzione insieme graduale e di rottura, in grado di stabilire un nuovo link fra le città-mondo e i sistemi nazionali da un lato e, dall’altro, la vera novità del capitalismo globalizzato: il progressivo formarsi nelle Global Value Chains di parti infinitamente più nobili delle altre, laddove l’industria si fa liquida nelle strategie, immateriale nei processi ed esplosiva nella generazione di valore aggiunto. Una cosa che fa – e farà sempre più – la differenza per chi vive e lavora, studia e progetta in un posto o nell’altro del mondo.

È vero che non sempre sussiste una razionalità lineare nella Storia. Ma è altrettanto vero che, se esiste un luogo materiale e simbolico in grado di proiettare tutto il Paese in questo specifico futuro, questo luogo si chiama Milano. La Milano del post Expo dispone del patrimonio genetico perché la luce si accenda e il passo in avanti si compia. È un problema di posizionamento rispetto agli standard internazionali, di rapidità di movimento di fronte al mutare delle cose e di contesto generale. Secondo il Miur a Milano oggi ci sono 200mila studenti, 13mila dei quali sono stranieri. Sono il 6,4% del totale, contro il 4,1% della media nazionale. Il master in management della Bocconi è fra i primi dieci al mondo. La faculty in Engineering and Technology del Politecnico è fra le prime venticinque. E, al di là delle statistiche sulla reputazione internazionale, in un passaggio storico segnato da un dinamismo fluido, competitivo e a tratti ansiogeno la Statale di Milano ha avuto la lucidità (e il coraggio) di muovere per prima proponendo di spostare alcune sue sezioni nel sito di Milano-Rho. Non è poca cosa. Nella complessa dialettica fra economia e società, tanto più delicata e cruciale nel trapasso al nuovo postfordismo e alla nuovissima economia della conoscenza, il contesto generale conta molto.

Secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, a Milano il 67% delle persone fra i 25 e i 64 anni ha un diploma di scuola media superiore: 10 punti più rispetto alla media del Paese. Fra i 30 e i 34 anni il 32% è laureato, 8 punti in più rispetto alla media. Dunque, il contesto è semplicemente diverso, radicalmente differente rispetto allo standard italiano. C’è uno stacco rilevante anche delle punte più avanzate ed elitarie del pensiero tecno-scientifico, humus essenziale perché la fabbrica divenga neo-fabbrica e la manifattura volga in maniera definitiva in produzione intelligente, per diventare poi chissà che cosa. Spesso si citano le 12mila startup ad alta intensità di conoscenza – il 20% in più rispetto al Baden-Württemberg – nella Lombardia incardinata su Milano.

Appare altrettanto importante il duplice profilo della densità scientifica, calcolata attraverso gli articoli citati nelle riviste internazionali di prima fascia, e della densità tecnologica, stimata attraverso i brevetti. Secondo l’ufficio studi di Assolombarda, sugli articoli scientifici Milano e la Lombardia se la giocano: 21 ogni milione di abitanti (erano 10 nel 2007), a fronte dei 27 della Catalogna (11 nel 2007), dei 29 del Baden- Württemberg (13 otto anni fa) e dei 23 della Baviera (14 otto anni fa). Milano e la Lombardia si trovano invece in una posizione intermedia, rispetto alle altre aree di competizione local-globale, nei brevetti: è vero che i 536 e i 440 per milione di abitanti relativi al Baden- Württemberg e alla Baviera sono lontanissimi; ma è altrettanto vero che, con 135 brevetti per milione di abitanti, Milano e la Lombardia superano di gran lunga la Catalogna, che ne ha 61.

Peraltro, usando il criterio non strategico-comparativo delle Region, ma quello secco-quantitativo delle aree cittadine, in Europa Milano è al settimo posto dopo Monaco, Parigi, Isère e Hauts de Seine (in Francia), Berlino e Brabant (in Olanda).

Di certo, Milano è l’unico vero snodo italiano nell’ordito dell’innovazione, strategica in una Europa che voglia tornare a sperimentare il capitalismo di rottura tecnologica e non più soltanto incrementale-combinatorio. Non a caso, una elaborazione compiuta dalla Camera di commercio di Milano su dati dello European Patent Office, di Aida e di Eurostat assegna a Milano-Monza Brianza, nella nuova integrazione fra il post fordismo e l’artigianato anche digitale dei makers, il 25,5% delle domande di brevetto italiane. La stessa elaborazione, delimitando il perimetro delle imprese innovative a quella punta avanzata della manifattura che si trasfonde sempre più nell’alta tecnologia e nel terziario avanzatissimo, chiarisce che a Milano si trova l’11% del novero complessivo del nostro Paese. In queste aziende lavorano 216mila addetti, su 829mila occupati italiani di questo particolare segmento. Una impresa su dieci. Un addetto su quattro. Questo significa anche che le aziende sono giunte a un punto di maturazione e di strutturazione più avanzato rispetto al resto del Paese. Non a caso, in una specifica nicchia come quella dei servizi tecnologici – cruciali per la produttività di tutto il tessuto economico – dal 2008 sui bilanci il fatturato è calato di un paio di punti percentuali, ma il valore aggiunto è aumentato del 5,5 per cento.

Questo, nell’ordinario. E nel tentativo di costruire ponti sul vuoto, verso il futuro? Secondo la ricerca “Milano Produttiva”, promossa sempre dalla Cdc, circoscrivendo il campo ai semi che un giorno potrebbero diventare grandi alberi – le startup – il 15% dei casi italiani si trova a Milano. Quest’ultimo dato vuol dire tutto e non vuole dire nulla. Di certo, però, appare coerente con il mosaico appena composto. Il quale, a sua volta, mostra come le strategie Post Expo – basate non sull’idea che il sito di Rho sia un problema immobiliare, ma una opportunità strategica e identitaria per Milano e il Paese – vadano nella direzione giusta. Ora – e non è poco – bisogna “soltanto” passare dal pensiero all’azione.

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