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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2015 alle ore 06:55.
L'ultima modifica è del 09 gennaio 2015 alle ore 08:08.

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C’ è un’emergenza sommersa in Europa, dal potenziale ancora più distruttivo della crisi dell’euro che non passa. Se ne parla poco. Eppure la incalza da decenni e riaffiora a corrente alternata quando fatwe, assassinii, decapitazioni e attentati terroristici la risvegliano, provocando impeti di indignazione e condanna degli orrori e abomini perpetrati.
Quasi subito rimossi però da una sorta di transfert collettivo che si rifiuta di prendere atto della realtà.
La realtà europea oggi è la società multietnica, che rischia di spianarne l’identità storica nella distrazione e nell’indifferenza di chi invece dovrebbe provare a difenderla: perché i suoi valori non sono merce da consegnare al macero o alla pura retorica e, soprattutto, perché senza identità e valori forti non c’è dialogo costruttivo possibile. Con nessuno. Meno che mai con comunità, culture e religioni militanti, Islam in testa, che dell’espansione delle proprie idee fanno un punto di forza e di rivincita sul mondo occidentale.
L’Europa che invecchia e fa sempre meno figli ha e avrà sempre più bisogno di immigrati. C’è chi prevede che nel 2050, tra nuovi arrivi e crescita demografica, saranno 80 milioni, in prevalenza musulmani, il quadruplo dei livelli attuali, un numero pari alla popolazione della Germania. Poco più di quella della Turchia.

Gli Stati Uniti hanno un modello forte, coeso e profondamente identitario. Per questo governano con successo la cultura del “melting pot”: chi sbarca in America non solo si integra ma quasi sempre è fiero di farlo. L’Unione europea è esattamente l’opposto: una costruzione fondata su individualità nazionali dalle radici, lingue e culture secolari tutt’altro che mitigate dal processo di integrazione, un insieme oggi sfilacciato e incapace di venire a patti con se stesso. Figuriamoci con l’altro e gli altri, che comunque è costretto a ospitare tra le mura di casa perché ne ha vitale bisogno. Anche per questo chi arriva tende a isolarsi, a voler restare diverso o, peggio, negli ultimi anni sempre più antagonista.
Di campanelli di allarme sulla convivenza sempre più difficile tra comunità impermeabili e Governi tolleranti o comunque poco concentrati sul problema, esaurita la reazione emotiva alla tragedia di turno, ce ne sono stati tanti. Troppi. Dalla condanna a morte di Salman Rushdie, l’autore dei Versi Satanici, decretata nell’89 dall’ayatollah Komeini, all’uccisione in pieno centro di Amsterdam nel 2004 di Theo Van Gogh, regista del film “Submission” . Tra l’altro proprio lo stesso titolo del romanzo appena uscito di Michel Houellebecq, lo scrittore nemico del “politically correct” che evoca una Francia in rotta con i partiti tradizionali ma decisa a sbarrare il passo a Marine Le Pen tanto da affidarsi, tra 7 anni, a una coalizione guidata dai Fratelli musulmani che porterà all’Eliseo il primo presidente islamico. Il quale prontamente vi introdurrà la legge della shariia.

Dalla pubblicazione in Danimarca nel 2005 delle vignette su Maometto, seguita dalla solite minacce di morte e da un embargo contro i prodotti danesi in tutto il mondo islamico, a attentati più o meno clamorosi in giro per l’Europa. Fino all’attacco l’anno scorso contro il Museo ebraico di Bruxelles. Fino alla strage a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo. Caccia ai responsabili a parte, ogni volta l’Europa o meglio i suoi Stati membri hanno preferito rifugiarsi nella politica dello struzzo per non incorrere nell’accusa di Islamofobia e nella falsa illusione che le tensioni si spegnessero da sole. Ma ogni volta si sono accese più violente tra disordini e periferie delle grandi città in fiamme, con i “retornados” dalle guerre dell’Isis, di Siria e Iraq pronti a mestare e fare facili proseliti nei torbidi di società in profonda crisi di valori, sempre più insicure e invase da schiere di disoccupati senza prospettive con l’economia che non cresce e Governi ciechi e indeboliti dalla congiuntura avversa.
I morti di Parigi hanno messo la sordina sulla grande marcia di Pegida, il movimento degli “Europei Patriottici contro l’Islamizzazione dell’Occidente”, che a Dresda ha visto sfilare 18mila tedeschi. Suscitando in diverse città del paese manifestazioni di segno opposto. Il che non ha impedito al partito anti-euro Alternativa per la Germania di avvicinarsi al movimento. Un’alleanza tra le due formazioni potrebbe dare molto filo da torcere alla politica soft di Angela Merkel. Potrebbe aprire anche a Berlino scenari di contestazioni nazional-populisti, sciovinisti e xenofobi molto simili a quelli che da tempo prosperano in quasi tutta l’Unione europea.

Del resto quando i dati ufficiali (a quanto pare non quelli davvero reali) segnalano 6 milioni di musulmani in Francia, 4 in Germania, quasi 3 in Gran Bretagna, poco meno di 2 in Italia e percentuali comprese tra il 6,2 al 4,1% della popolazione in Austria, Belgio, Olanda, Svezia e Danimarca, delle due l’una: o si impara a gestire, preferibilmente in modo coordinato, la società multietnica e multi-religiosa o la si subisce. Tertium non datur. Invece a ranghi sciolti e in uno stato di completa confusione mentale, oggi l’Europa oscilla tra il divieto del velo e il permissivismo più sfrenato che in Gran Bretagna, Belgio e Olanda introduce la legge della sharia nei codici civili, accetta i tribunali islamici in Inghilterra come anche, sembra, in alcune città francesi, Marsiglia, Lione e Tolosa, tollera la polizia islamica sempre in Inghilterra oltre che in Belgio, Danimarca e Svezia.

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