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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2014 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:37.

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Dopo due anni in alta quota, i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani e spagnoli sono tornati a respirare: in pochi giorni, i rendimenti chiesti dal mercato sono scesi ben al di sotto della soglia psicologica del 4% a cui sono stati inchiodati per più di un anno, alimentando così le speranze su un 2014 migliore per tutti. Migliore per l'Eurozona, migliore per l'economia mondiale: se i tassi scendono, affermano gli analisti, non è solo per la liquidità ancora abbondante sulle due sponde dell'Atlantico, ma anche perchè (finalmente) i mercati sono tornati a muoversi sulla base delle attese di crescita mondiali, e soprattutto delle scelte di politica economica.

La tesi ha certamente le sue basi, ma in Paesi come l'Italia e la Spagna - sorvegliati speciali dell'Eurozona - va maneggiata con grande cautela: anche se il rischio sovrano scende, l'economia e le riforme sono ferme al palo. La Spagna, i cui tassi sono scesi ieri ai livelli del 2009, ha forse beneficiato della maggiore stabilità politica per capitalizzare sull'abbondanza di capitali meglio dell'Italia, il cui recupero si è fermato ai tassi del maggio 2013. Ma lo «spread» di fiducia dei mercati nei confronti dei due Paesi non è cambiato di molto: sono i rendimenti più alti della media europea a portare oggi il denaro sui BTp e i Bonos, non certamente gli effetti delle promesse o delle poche riforme attuate. Sia Roma che Madrid, insomma, dovrebbero tenere ben presente che più di una pace con i mercati, quella attuale è una semplice tregua tattica, o al meglio una scelta opportunistica e temporanea.
Quando la Fed taglierà gli aiuti alle banche, come farà quest'anno con 10 miliardi di dollari in meno in acquisti di bond, gli effetti sui flussi di capitali potrebbero farsi molto pesanti e soprattutto selettivi.

Il processo, tra l'altro, è già in atto nei Paesi emergenti, dove il miracolo finanziario degli ultimi tre anni si sta rapidamente trasformando in un incubo economico: ieri tutte le grandi banche di investimenti di Wall Street hanno raccomandato ai clienti di ridurre fortemente l'esposizione sulle attività dei mercati che vanno dal Brasile alla Turchia passando per la Thailandia. Il motivo? Non una crisi economica incombente, ma la sola prospettiva della stretta monetaria americana. La portata della riallocazione di risorse è talmente elevata da aver destabilizzato anche il mercato delle materie prime, quello valutario (yen e franco svizzero sono caduti in tandem) e persino quello dell'oro, che è tornato improvvisamente nella lista degli acquisti delle banche dopo essere crollato
l'anno scorso ai minimi di quasi 30 anni.

Per ora l'Europa sembra beneficiare della rotazione finanziaria globale, ma il vero rischio è che le economie deboli dell'Eurozona - a cominciare proprio dall'Italia - ci si possano adagiare per rinviare riforme e tradire promesse: senza il sostegno delle banche centrali - e non solo della Fed ma anche della Bce - saranno le fragilità dei mercati nazionali e il passo delle economie a determinare la rotta dei capitali e la fiducia degli investitori internazionali. Una dimostrazione in tal senso l'ha data ieri l'Irlanda, il primo paese salvato due anni fa dalla bancarotta grazie agli aiuti europei. Ebbene, il risanamento delle banche nazionali, le riforme fiscali e la fermezza del governo nel difendere la legislazione pro-impresa hanno permesso all'Irlanda di collocare 3,75 miliardi di euro di titoli di Stato con un rendimento del 3,5%, il più basso dal 2006: se si pensa che la domanda ha raggiunto i 14 miliardi di euro e che il fabbisogno dell'intero 2014 è stato fissato da Dublino tra gli 8 e i 10 miliardi di euro, l'Irlanda avrebbe potuto mettere in cassa già ieri tutte le risorse necessarie per l'anno fiscale in corso. Anche l'Irlanda beneficia certamente dei capitali americani e dei tassi prossimi allo zero decisi dalla Bce di Mario Draghi, ma per gli investitori sono stati il risanamento delle finanze pubbliche e la stabilità politica a contare di più.

I mercati dei capitali, insomma, hanno sempre due volti e di questi tempi è molto pericoloso pensare che l'euforia finanziaria sia un termometro anticipatore della ripresa economica. Lo hanno capito bene gli svizzeri, che di finanza certamente se ne intendono: mentre in Italia e in Spagna si fa a gara per vedere la luce in fondo al tunnel, in Svizzera hanno già riacceso le luci di emergenza. Ha cominciato ieri il Credit Suisse, che in piena euforia delle Borse e dei tassi ha annunciato la decisione di liquidare entro i prossimi 24 mesi quasi il 60% delle attività finanziarie più rischiose e di ridurre drasticamente la «leva», cioè il rapporto tra capitale e debito, alla luce delle incertezze ancora forti e presenti sui mercati internazionali.

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