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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2013 alle ore 07:55.

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Nel porre al centro dell'attenzione il tema della ripresa dell'economia e della lotta contro la disoccupazione, il Governo Letta ha fatto, con cautela e senza enfasi, una correzione di rotta rispetto all'impostazione del Governo Monti. Era, a nostro avviso, la sola cosa sensata da fare, visti gli esiti disastrosi di quella politica.

La concentrazione ossessiva sul riequilibrio immediato dei conti pubblici è costata due anni di caduta del reddito nazionale e dell'occupazione, e non ha neppure raggiunto gli obiettivi di finanza pubblica: il deficit, che doveva azzerarsi nel 2013, è al 3% del Pil; il rapporto debito/Pil, che doveva collocarsi al 118% ed essere in discesa, è al 130% ed è tuttora in crescita. In coerenza con questa nuova impostazione, il Governo ha dato un modesto contributo al sostegno della domanda, rinviando gli aggravi fiscali preannunciati e avviando la liquidazione dei debiti pregressi della Pa. Queste decisioni, insieme al segnale netto venuto dalle elezioni avverso all'austerità, stanno probabilmente contribuendo a stabilizzare le aspettative e quindi a frenare la caduta dei consumi e del Pil. Sentiamo dire che questi provvedimenti stanno portando l'Italia fuori dalla crisi. Il Governo prevede per il 2014-16 una crescita di poco superiore all'1% in media d'anno. Seppure questa previsione fosse esatta, si tratterebbe di un recupero modestissimo rispetto ai passi indietro compiuti negli ultimi sei anni, durante i quali il reddito nazionale si è ridotto del 9%, la produzione industriale è diminuita del 20% e il tasso di disoccupazione è raddoppiato dal 6,1% al 12,2%. Bisogna ora stabilizzare il rapporto debito/pil ed evitare che il calo congiunturale si traduca in una flessione definitiva del reddito potenziale. Per questi motivi, per l'Italia è indispensabile assicurarsi rapidamente un tasso di crescita del reddito nazionale dell'ordine del 3-4% l'anno: un obiettivo realistico, non dissimile dai ritmi di sviluppo che attualmente si registrano in Giappone, dove un cambiamento della politica economica ha fatto decollare un'economia stagnante da oltre vent'anni.

Vi è ormai un'evidenza schiacciante che la crisi iniziata nel 2011 è stata provocata dalla scelta europea di comprimere la domanda e non dall'alto livello del debito pubblico o dai problemi dell'offerta. Lo dimostrano l'enorme output-gap che si è aperto in molti paesi Europei, le previsioni sistematicamente e grossolanamente errate, il successo di tutti gli altri paesi del mondo che hanno rifiutato di seguire l'Europa nel suo fatale esperimento di supply side economics. Eppure, il buon senso stenta a farsi strada.
Il Presidente del Consiglio ha usato nei giorni scorsi parole forti contro il rigore imposto dall'Europa: in coerenza con queste affermazioni, egli deve esporre con chiarezza le esigenze dell'Italia. Se l'Italia vuole sostenere una ripresa consistente del reddito nazionale, dovrà alzare per almeno due anni il deficit pubblico al 5%, agendo sulle poste del bilancio che hanno il massimo impatto sull'attività economica. L'Europa dovrà riconoscere la necessità di tale politica. La Bce dovrebbe contribuire alla realizzazione di questo programma garantendo una discesa dello spread sotto i 100 punti base. Quest'obiettivo è assolutamente alla portata della Bce: persino in Giappone, dove la situazione fiscale è assai più drammatica - il debito è al 240% e il deficit è al 10,3% del Pil - la banca centrale tiene i tassi sotto i livelli tedeschi.

Se, come si è visto, l'austerità ha aggravato il problema del debito pubblico, una manovra espansiva - dato l'attuale valore dei moltiplicatori fiscali - ha alte probabilità di ripagarsi da sé nel giro di 15-20 mesi, e di contribuire alla riduzione del rapporto Debito/Pil; a maggior ragione se la manovra fosse condivisa da altre nazioni europee, e finanziata a tassi d'interesse bassi. Per questo motivo noi non riteniamo necessario, per provocare un nuovo calo degli spread, che vi sia un accordo nell'ambito delle Omt fra Italia e Efsf. Ma non saremmo contrari a questo accordo, se fosse chiaro che esso è funzionale a un deficit pubblico ben al di sopra del 3%, per il tempo necessario a consolidare la ripresa. Un grande paese come l'Italia può e deve chiedere ai suoi partners un rovesciamento della filosofia europea di fronte alla crisi.
Siamo convinti che, di fronte a una posizione ferma del Governo italiano, l'Europa non potrà continuare a ignorare le lezioni di questi anni. Ma se così non fosse, l'Italia dovrebbe essere pronta a fare da sé. Con ciò intendiamo dire che dovrebbe procedere alla creazione di liquidità interna mediante una emissione di quasi-moneta con la quale rianimare la crescita. Pensiamo a circa 25-30 mld l'anno di spesa pubblica e minori tasse - per un massimo di 100-150 miliardi, con un piano di rientro condizionato - finanziati tramite "titoli pubblici" di piccolo taglio (scadenza 2150, tassi prossimi a zero) ad ampia circolazione in quanto utilizzabili per pagare tasse, bollette, ecc., emessi a fronte di pagamenti della Pa.

Apprezziamo le parole del Presidente del Consiglio, ma temiamo che, pur di evitare una battaglia molto difficile in Europa, si possa essere indotti a sopravvalutare i recenti segnali di rallentamento della crisi. In realtà, se l'Italia non riuscirà ad innestare una marcia in più, come chiediamo da tempo, la situazione sociale del paese è destinata ad aggravarsi. I politici che hanno una visione liberale della società e dell'economia non possono ignorare la domanda di profonda svolta nella politica economica emersa nelle ultime elezioni e che sale dal paese. Il Governo ha davanti a sé una piccola finestra di opportunità. Bisogna agire prima che essa si richiuda.

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