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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2012 alle ore 08:20.

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È senz'altro vero che in Italia il governo Monti registra un ampio consenso nell'opinione pubblica, quel consenso che i partiti tradizionali hanno perso. Per meglio dire, l'esecutivo «tecnico» è percepito come credibile, anche quando perde qualche punto nei sondaggi: come sta avvenendo in questi giorni a causa della controversa riforma del lavoro.

D'altra parte, gli elogi che il presidente del Consiglio va raccogliendo all'estero, da Obama alla Ue, dal leader cinese agli interlocutori giapponesi, testimoniano del personale credito che il premier si è guadagnato nei primi mesi del mandato. E lasciano capire che Monti è in questo momento l'interlocutore privilegiato, e diciamo pure insostituibile, di quel mondo globale che guarda all'Italia per investimenti e altro.

Questa è la realtà. E quando il premier all'estero ricorda, con un po' di risentimento, che i partiti hanno perso credito e consenso, non fa che confermare di essere in sintonia con la comunità internazionale. Come dire: continuate ad avere fiducia nell'Italia perché il timone lo controllo io e non i vecchi partiti pasticcioni.

Quello che Monti non dice, ma sottintende in forme trasparenti, è che i tatticismi delle forze politiche, il loro tortuoso ed estenuante modo di procedere, la tendenza a spaccare il capello in quattro, lo hanno parecchio irritato. Sentimento che deve essere più forte quando si guarda verso Roma da qualche migliaio di chilometri di distanza e tutto appare remoto e provinciale. Specie allorché c'è di mezzo una riforma, come quella del mercato del lavoro, studiata per favorire lo sviluppo e arenata sui veti politico-sindacali.

Detto questo, l'uscita del premier si presta a una serie di critiche. In primo luogo, certi concetti non possono essere reiterati ogni giorno. Monti lo aveva appena detto («io non tiro a campare»): perché ripetersi, visto che non sono emerse particolari novità nelle ultime 48 ore? Tutta questa insistenza nel sottolineare i limiti dei politici tradisce una certa insofferenza che in apparenza è impolitica. E tra l'altro contraddice l'attitudine felpata e molto astuta del primo Monti, quello che tra novembre e gennaio ha messo in riga i partiti coprendoli di elogi o almeno di riferimenti rispettosi.

In secondo luogo il premier tende a mescolare piani diversi. Il consenso al governo (e a chi lo guida) viene registrato dai sondaggi giorno dopo giorno. È sempre piuttosto alto, nonostante l'articolo 18. Tuttavia i partiti, screditati nei sondaggi, troveranno i loro voti nelle urne del 2013 e si sentiranno rilegittimati. Quale che sia il tasso di astensione, conteranno i simboli politici vecchi e nuovi. Se Monti vuole fotografare la perdita di credibilità dei partiti al di là dei rilevamenti demoscopici, non ha che un mezzo: presentare una sua lista la prossima primavera e provocare un serio smottamento degli equilibri parlamentari.

Se lo facesse otterrebbe un prevedibile successo (significativo il sondaggio volante di Sky Tg 24 sulle parole del premier: gli dà ragione circa il 75 per cento). I partiti tradizionali, a destra come a sinistra, pagherebbero un duro scotto. Il sistema politico ne uscirebbe trasformato. È questo che vuole il presidente del Consiglio? Sembra di no, visto che non perde occasione di evocare il suo ritorno alla vita privata («il dopo Monti? Sarà fantastico. Per me», ha detto in Giappone).

Eppure le frasi contro i partiti lasciano intendere che non tutto è chiaro nella storia dell'esperimento Monti, nel suo rapporto con la pubblica opinione e nella sua prospettiva politica. Il 2013 è lontano e molte cose devono ancora accadere.

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