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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2012 alle ore 14:22.

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Stampare oggetti, ma non solo. Edifici, piccoli o grandi. Nuovi alimenti o addirittura pezzi di ricambio per il corpo umano. Il tutto con una stampante in 3D, capace di riprodurre con assoluta precisione ogni minimo dettaglio di componenti disegnate al computer. In parte, sono processi già utilizzati nelle fabbriche di oggi: la digitalizzazione del manifatturiero, che si serve ormai di macchine a controllo numerico capaci di tagliare in diverse direzioni, di gestire più strumenti in successione o di accorgersi se qualcosa sta andando storto e segnalare l'errore, è ampiamente diffusa.

Ora si sta arrivando al salto verso il manifatturiero "additivo". Basta tornio e fresa, trapani, scalpelli, presse, estrusione, compressione, iniezione, soffiatura. Con una stampante 3D resta solo la laminatura: ogni componente si costruisce strato dopo strato, spalmando un velo sottile di materiale sopra l'altro: a forza di aggiungere strati, in base al disegno richiesto, prende corpo un oggetto in tre dimensioni.

È un processo che aggiunge materiale, nella misura precisa in cui serve. Non butta via nulla. E si usa la stessa macchina per costruire oggetti radicalmente differenti, così come si usa la stessa stampante per riprodurre la pianta di una casa o il profilo di una foglia. Così si saltano diversi passaggi e si elimina il concetto delle economie di scala. In prospettiva, addio grandi stabilimenti e logistica complessa, depositi e scarti di magazzino. Via libera alla fantasia e alla produzione di piccoli numeri, o addirittura on demand. Le macchine sono ormai talmente abbordabili da consentirne l'uso semi-domestico o comunitario, per piccole imprese interessate al design, scuole, università, centri di ricerca. Nasce un'idea, si disegna, si produce e se piace al pubblico si replica, altrimenti resta un pezzo unico. Magari condividendo i progetti stessi. Sembra un sistema fatto su misura per lo spirito del made in Italy.

Sistemi di questo tipo esistono già. I materiali utilizzati sono soprattutto resine sintetiche, ma anche metalli o ceramiche. Con le macchine più sofisticate si possono affiancare materiali di densità e consistenze diverse, duri e rigidi da un lato e gommosi o soffici dall'altro. Gli intricati abiti stampati in 3D da una stilista olandese, Iris van Herpen, sono diventati un must per Björk e Lady Gaga. La possibilità di riprodurre disegni estremamente complessi con materiali molto leggeri crea un nuovo linguaggio nel design. Gli oggetti stampati in 3D spesso hanno un aspetto e una consistenza organica, come se facessero parte del mondo della natura. La differenza, rispetto agli oggetti prodotti con le macchine della generazione precedente, si vede a occhio nudo e dipende dal fatto che non sono costituiti da diversi pezzi assemblati, ma si possono stampare in un pezzo unico anche se hanno parti mobili.

Sono anche più leggeri, perché si tende a usare il minimo materiale necessario, lasciando le parti interne cave, laddove possibile. I vantaggi, oltre che sul piano estetico, sono evidenti anche su quello economico: per l'aerospaziale, dove molte parti si ricavano da blocchi di titanio gettando il 90% del materiale, si trasforma in un risparmio enorme. Gli alimenti sono un altro grande campo di applicazione. Un gruppo di ricercatori di Cornell ha stampato una torta, ma non ancora il prodotto più ovvio: la cioccolata.
Ultimo – ma forse più importante – aspetto di questa rivoluzione è la dimensione sociale.

La più semplice stampante 3D, Cube dell'americana 3D Systems, è più piccola di una fotocopiatrice, costa meno di mille euro. Replicator, della newyorkese MakerBot, non arriva a 1.500 euro e produce oggetti più grandi. Con una macchina così e un sito internet su cui scambiare i disegni con gli altri appassionati, nascono social network che trasformano il manifatturiero in un'attività comunitaria. Shapeways, comunità fondata da un inventore olandese, non vende le stampanti ma produce gli oggetti disegnati dai clienti e mette online i disegni sul suo sito, una specie di YouTube della creatività in tre dimensioni. Quirky va ancora più in là: nel suo stabilimento in riva all'Hudson realizza, brevetta e distribuisce qualsiasi disegno sia stato apprezzato dalla vasta community che lo circonda, remunerando poi l'inventore con il 30% dei ricavi. In pratica, è la nascita di un manifatturiero 2.0. Riuscirà a riportare in Occidente qualche posto di lavoro emigrato in Cina?
elenacomelli.nova100.ilsole24ore

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