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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 08:45.

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FIRENZE
Sulla ricapitalizzazione di Banca Monte dei Paschi si sta consumando un braccio di ferro, del tutto inedito, che non accenna a rientrare.
Da una parte i vertici del gruppo senese, il presidente Alessandro Profumo e l'amministratore delegato Fabrizio Viola, decisi a portare la manovra in consiglio d'amministrazione già la prossima settimana, una volta ricevuto dalla Commissione europea il via libera al piano di ristrutturazione, che prevede appunto di realizzare un aumento di capitale da 3 miliardi nel corso del 2014.
Dall'altra la Fondazione Mps, presieduta da Antonella Mansi, che invece preferirebbe spostare in avanti di qualche mese l'operazione, perchè prima vuole trovare un acquirente per una parte o l'intera partecipazione nel Monte ancora in suo possesso (33,5%), condizione indispensabile per reperire i mezzi con cui chiudere il proprio indebitamento, pari a 350 milioni, e avere l'ossigeno necessario a proseguire almeno la gestione ordinaria.
Il botta e risposta dei giorni scorsi tra Mansi («L'aumento di capitale a gennaio sarebbe penalizzante per noi») e Profumo («Seguiremo il codice civile e faremo l'interesse di tutti i soci»), è lo specchio di una situazione che per la prima volta mette su sponde diverse Fondazione e Banca Mps. Dal 1995, cioè dalla nascita dell'Ente di Palazzo Sansedoni con lo scorporo dell'azienda di credito, le posizioni hanno sempre coinciso. Fino a dare sostanza alle accuse di chi avrebbe voluto una Fondazione meno succube della banca, quando al vertice c'erano rispettivamente Gabriello Mancini e Giuseppe Mussari.
I guasti del sistema Montepaschi, con le inevitabili ricadute sui territori di riferimento (soprattutto a Siena, ma non solo), derivano sì da scelte strategiche sbagliate (l'acquisto di Antonveneta) e da una gestione su cui la magistratura sta cercando di fare chiarezza, ma per quanto riguarda la Fondazione all'origine dei problemi c'è il non aver saputo dire "no". La mancanza d'indipendenza (per input politico) ha messo a repentaglio la stessa sopravvivenza dell'Ente di Palazzo Sansedoni.
La nuova governance della Fondazione punta i piedi e non sembra disponibile a votare in assemblea straordinaria l'aumento di capitale da 3 miliardi (quello da un miliardo è già stato approvato e delegato al cda della banca), che rischia di diluire in maniera irreparabile il proprio patrimonio, considerato lo sconto con cui verrebbe offerta al mercato l'operazione (si parla del 40%) e la soglia di valore del titolo (0,12 euro) al di sotto della quale le banche esposte con la Fondazione possono escutere il loro credito, garantito da quel 33,5% di Mps.
Da parte sua, Viola ha ripetuto che per il Monte prima si fa l'aumento meglio è. L'amministratore delegato del gruppo ha anche spiegato che le "finestre" utili sono tre: gennaio, giugno e dicembre 2014. L'accelerazione per sfruttare la prima opportunità, che vuol dire convocare l'assemblea straordinaria a fine anno e avviare l'operazione entro gennaio (in modo da presentare i conti dei primi nove mesi del 2013), è dovuta alla convinzione che il mercato in questo momento sia favorevole e che dunque l'advisor Ubs possa mettere insieme un consorzio di garanzia.
Il rafforzamento patrimoniale di Banca Mps, con la restituzione di buona parte del prestito pubblico (interessi sui Monti bond compresi), allontanerebbe il rischio nazionalizzazione e contribuirebbe al rilancio del gruppo senese. Per Profumo e Viola questo è l'interesse prevalente, in termini di sistema e di ricadute occupazionali. Ecco perchè, nonostante siedano nel consiglio di Rocca Salimbeni su indicazione della Fondazione, si preparano a votare l'aumento di capitale che in questo momento l'Ente non vuole.
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