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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2014 alle ore 12:49.
L'ultima modifica è del 05 settembre 2014 alle ore 17:24.

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La fattispecie delle "fatture soggettivamente inesistenti" è riferita ai casi in cui la transazione commerciale (cessione di beni o erogazione di servizi) è effettivamente avvenuta (in tal modo non potendosi parlare di operazioni oggettivamente inesistenti), ma il fornitore reale risulta essere differente da quello che appare, e che ha emesso la fattura.

Alla base di tali operazioni ci sono società (le fornitrici) che omettono il pagamento dell'Iva incassata (se non anche il versamento delle imposte dirette), e altri soggetti – il o i clienti – che ne beneficiano indirettamente attraverso una riduzione del prezzo di acquisto o altro ancora.
Spesse volte, tuttavia, il soggetto-cliente, ignaro di un'operazione tesa a evadere l'Iva concepita da parte del suo fornitore, acquista in buona fede, da quest'ultimo, la merce o il servizio. In tale circostanza, l'agenzia delle Entrate tende a recuperare a tassazione tutta l'Iva detratta dalle operazioni intercorse con il fornitore evasore. Come è facile intuire, quindi, le ripercussioni in termini fiscali sono tutt'altro che indifferenti.
Fino all'avvento del decreto legge n.16/2012, convertito in legge n. 44/2012, venivano considerati indeducibili anche i relativi costi. Tale decreto, sancendo che «l'indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi», ha posto fine alla diatriba in tema di imposte dirette.
Per quanto riguarda l'Iva, la questione rimane aperta, ed è piuttosto complessa. Innanzi tutto, essendo l'Iva una imposta comunitaria, il riferimento interpretativo principale è la Corte di Giustizia europea. Le sentenze della Corte, è bene ricordare, hanno immediata applicazione nell'ordinamento italiano, così come statuito dalla Corte costituzionale italiana, secondo la quale la parola della Corte di Giustizia «deve trovare immediata applicazione non solo da parte del giudice nazionale nell'esercizio della sua giurisdizione, ma anche della stessa pubblica amministrazione nello svolgimento della sua attività amministrativa» (Corte Costituzionale, sentenza n.168/1991). Come si evince dall'articolo qui in basso a destra, le sentenze della Corte europea hanno individuato, in modo sostanzialmente univoco, i casi in cui tale fattispecie risulta punibile o meno.

Innanzi tutto, il presupposto di partenza è che non può sussistere, in campo Iva, responsabilità oggettiva: se così fosse, infatti, ogni contribuente si vedrebbe riprendere a tassazione l'Iva detratta sugli acquisti di vendite o servizi, per il sol fatto che il proprio fornitore non abbia versato l'Iva, con buona pace dei principi generali di certezza del diritto e di legittimo affidamento. Ne consegue, quindi, che il postulato della detraibilità può essere scalfito solo sulla base di un'oggettiva prova della frode.
Più precisamente, il tenore generale delle sentenze Ue individua un primo onere della prova in capo all'amministrazione finanziaria: essa deve essere in grado di dimostrare, sulla base di elementi oggettivi, che il soggetto accertato era a conoscenza del disegno criminoso del fornitore, o comunque ne avrebbe dovuto avere conoscenza. Laddove – e solo laddove – il Fisco sia in grado di dimostrare questo assunto, verterà in capo al contribuente l'onere di dimostrare che, nella realtà dei fatti, egli era all'oscuro di tale disegno criminoso, né poteva essere in grado di venirne a conoscenza. Tuttavia – sempre in conformità al principio del legittimo affidamento – al contribuente non deve essere imposto di agire da investigatore o da "007": egli – citano varie sentenze europee – è tenuto solo a espletare "controlli ragionevoli". Laddove sia dimostrabile che tali "ragionevoli controlli" sono stati effettuati, e da questi ultimi non è emersa la frode perpetrata dal fornitore, il soggetto accertato è legittimato a detrarsi l'Iva.

Venendo alla giurisprudenza nazionale, concentrandoci su quella più recente della Corte di cassazione (per un approfondimento si veda l'articolo in basso a sinistra) troviamo una sostanziale convergenza con quanto sancito a livello europeo. Il problema di fondo è dettato dal significato che si intende attribuire alle parole "elementi oggettivi" (alla base dell'accusa) e ai "controlli ragionevoli", che il contribuente è tenuto a effettuare. È possibile assistere all'emissione di avvisi di accertamento fondati su una presunta conoscenza, in capo al soggetto accertato (cliente), dell'evasione perpetrata dal proprio fornitore, senza che questa presunzione poggi su elementi "oggettivi" (si veda il riferimento, nell'articolo in basso, alla Ctp Milano n. 4493/22/14), così come può capitare che vengano richieste al contribuente verifiche che non gli competono (ad esempio: controllo in loco dell'esistenza di una sede effettiva, analisi dei versamenti Iva effettuati dal proprio fornitore, eccetera). Su tali questioni si gioca gran parte del contenzioso in essere.

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