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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 08:18.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2012 alle ore 08:26.

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La crisi dell'eurozona è il rischio principale per l'economia mondiale, dice il G-20. Un collasso dell'unione monetaria sarebbe addirittura catastrofico: nessuno dei molti calcoli azzardati dagli economisti ne coglie appieno la portata.

Il più insistente nel sollecitare l'Europa ad affrontare la situazione con interventi immediati è stato in queste settimane il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Anche ieri ha parlato di "tempo di agire". La sua preoccupazione è comprensibile: con un'incerta elezione in arrivo a novembre e le critiche più pesanti dei repubblicani rivolte alla sua gestione dell'economia, Obama sa che la crescita ormai entrata in stallo e la disoccupazione che non cala sono le carte migliori nelle mani del suo avversario Mitt Romney. Se c'è un fattore che può aggravare lo stato dell'economia americana, e quindi le sue chance elettorali, questo, nell'opinione del presidente americano, è oggi la crisi europea. Sulla quale è impotente a intervenire.

Gli europei però non ci stanno a farsi mettere sul banco degli imputati. Le ore che hano preceduto l'avvio del vertice, ieri a Los Cabos, sono state quindi l'occasione di una polemica a distanza. Ai richiami all'azione da parte di Obama, ma anche dai leader di Canada e Gran Bretagna e dei grandi Paesi emergenti, che a loro volta stanno sperimentando sulla propria pelle che non saranno immuni dal rallentamento globale, le autorità europee hanno ribattuto con insolita durezza. «Non prendiamo lezioni da nessuno», hanno detto, per una volta all'unisono, Barroso e van Rompuy. L'origine della crisi in fondo è tutta americana, dicono, e i contraccolpi dei subprime e di Lehman sull'economia e sui mercati mondiali sono stati ben più pesanti di quelli della crisi dell'eurozona.

Il cancelliere tedesco Angela Merkel, alla quale le lezioni piace darle e non riceverle, ha ricordato a più riprese che tocca agli Stati Uniti comunque rimettere a posto i propri conti e agli emergenti, Cina in testa, lasciar rivalutare il cambio. Lo stesso presidente del Consiglio Mario Monti ha sostenuto ieri che all'origine dei problemi ci sono gli squilibri globali, irrisolti, di cui gli Usa sono una delle controparti.

Il modo peggiore per avvicinarsi a un vertice internazionale è lo scambio di accuse reciproche. Dal G-20, che dopo il summit di Londra dell'aprile 2009, quando la crisi finanziaria e la recessione erano più acute, non ha più saputo esercitare un ruolo guida nella governance globale, i mercati finanziari non si aspettano un granché. Una manifestazione palese di divisione, soprattutto fra Stati Uniti ed Europa, può però accentuare la sensazione che nessuno sia in grado di mettere in campo le misure necessarie per arginare la crisi e per far ripartire la crescita: nonostante i comunicati e i "piani d'azione" annessi. La verità è che, pur con tutte le sue implicazioni globali, quella dell'eurozona è una crisi in qualche modo locale, in cui le decisioni devono essere prese anzi tutto in Europa.

E l'Europa ha ripetuto ieri di voler procedere con il suo passo, con una prospettiva pluriennale e, a suo rischio e pericolo, poche concessioni all'urgenza imposta dai mercati, che concentrano l'attenzione sul vertice europeo di fine mese più che sul G-20: un passo strutturalmente lento, una lentezza che in parte deriva dalla ricerca del consenso, a volte attorno a un obiettivo minimo, a 17, oppure a 27; e in parte dal vuoto di leadership. Ma non sarà il tentativo di supplenza di Obama a risolvere il problema.

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