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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 10:00.

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Illustrazione di Franco MatticchioIllustrazione di Franco Matticchio

L'atto della lettura è a rischio. Leggere, voler leggere e saper leggere, sono sempre meno comportamenti garantiti. Leggere libri non è naturale e necessario come camminare, respirare, mangiare, parlare o esercitare i cinque sensi. Non è un'attività primaria, né fisiologicamente né socialmente. Viene dopo. È una forma di arricchimento, implica una razionale e volontaria cura di sé. Leggere letteratura, filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione virtuosa o leggermente perversa; un vizio che la società non censura; è sia un piacere che un proposito di automiglioramento. Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. È un modo per uscire da sé e dall'ambiente circostante, ma anche un modo per frequentare più consapevolmente se stessi e il proprio ordine e disordine mentale.

La lettura è tutto questo e chissà quante altre cose. È però soltanto uno dei modi in cui ci astraiamo, ci concentriamo, riflettiamo su quello che ci succede, acquisiamo conoscenze, ci procuriamo sollievo e distacco. Eppure la lettura è un singolo atto che ha goduto di un grande prestigio, di un'aura speciale nel corso dei secoli e ormai da circa tre millenni, da quando la scrittura esiste. A lungo e ripetutamente, per ragioni diverse, che potevano economiche, religiose, intellettuali e politiche, estetiche e morali, la lettura di certi testi ha avuto qualcosa del rituale. I testi di riuso, come i libri sacri, le raccolte di leggi e le opere letterarie, per essere riusati sono stati conservati e tramandati scrupolosamente. La società occidentale moderna ha trasformato e reinventato, in una certa misura, le ragioni e le modalità del leggere. Ma recentemente, negli ultimi decenni, l'atto di leggere, il suo valore riconosciuto, la sua qualità, le sue stesse condizioni ambientali e tecniche sembrano minacciate. Ne parla Italo Calvino in tono semiserio ma sinceramente allarmato nell'incipit dell'ultimo dei suoi romanzi: " Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: 'No, non voglio vedere la televisione!' Alza la voce, se non ti sentono: 'Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!' forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida…".

Si tratta dei rischi che corre la lettura. Ci sono d'altra parte i rischi che corre chi legge, soprattutto chi legge letteratura, filosofia e storia, in particolare quelle scritte in Europa e in America negli ultimi due secoli. Da quando esiste qualcosa che chiamiamo modernità – cioè la cultura dell'indipendenza individuale, del pensiero critico, della libertà di coscienza, dell'uguaglianza e della giustizia sociali, dell'organizzazione e della produttività, nonché del loro rifiuto politico e utopico – da allora leggere fa correre dei rischi. È un atto socialmente, culturalmente ambiguo: permette e incrementa la socializzazione degli individui, ma d'altra parte mette a rischio la stessa volontà individuale di entrare nella rete dei vincoli sociali rinunciando a una quota della propria autonomia e singolarità.
Società e individuo, autonomia personale e benessere pubblico sono due finalità non sempre conciliabili, a volte antagonistiche, fra cui oscilla la nostra cultura. Non possiamo fare a meno di dare il nostro assenso al bisogno di uguaglianza e al bisogno di singolarità. Ma questo duplice assenso crea un conflitto di desideri e di doveri, quando viviamo la nostra quotidianità personale e quando riflettiamo politicamente e scegliamo dei governi.

Ma è rischiosa anche la lettura dei classici premoderni, quelli che precedono, per intenderci, Shakespeare, Cervantes, Montaigne,che hanno reinventato generi letterari fondamentali come la prosa di pensiero, l'epica, il teatro. I problemi e i valori che caratterizzano la modernità occidentale, cioè libertà, creatività, rivolta e angoscia, si manifestano con chiarezza soprattutto con l'inizio del Seicento e cresceranno fino a travolgere distruttivamente la tradizione precedente, greco-latina e medievale. Un lettore attento e libero commentatore di classici antichi come Montaigne si dichiara provocatoriamente, con una sincerità forse enfatizzata, uomo senza memoria. Cervantes celebra e mostra impossibile l'eroismo antico, ormai nemico della realtà, del senso comune e follemente libresco. Shakespeare azzera e rimescola comico e tragico, alto e basso, re e buffoni, principi e becchini, eroismo e stanchezza malinconica.

Non per questo si è smesso di leggere i classici antichi: solo che la letteratura moderna non li imita più come era avvenuto fra gli umanisti e i sapienti neo-antichi fra Quatto e Cinquecento. Nel postmoderno New Age (una variante della postmodernità) il neo-antico è tornato per suggerimento di Nietzsche, in quanto polemicamente "inattuale". Quindi anche leggere gli antichi può ridiventare rischioso, almeno quando non è soltanto erudizione e archeologia: perché se è vero che per leggere, capire e interessarsi a un autore c'è bisogno di Einfühlung, di immedesimazione, anche se si tratta di Parmenide o Virgilio, è altrettanto vero che sentirsi contemporanei dei sapienti presocratici o di un classico latino può indurre una certa dose di follia anacronistica: almeno in Occidente, la cui storia ci ha spinto a elaborare e idolatrare appunto l'idea di Storia come progresso e rivoluzionamento, superamento incessante di condizioni precedenti e interruzione periodica di continuità. Non siamo in India, dove molti aspetti della tradizione si sono perpetuati così a lungo da aver inibito o reso poco interessante perfino la datazione precisa di certe loro opere classiche. Noi siamo animati, ossessionati, intossicati dall'dea di storia e dalla volontà di superare, demolire, scavalcare, dichiarare obsoleto il passato. Leggere ciò che quel passato ci dice è perciò diventato pane esclusivo per storici e filologi: viene studiato per essere tenuto a distanza, non per essere letto con immedesimazione. Alcuni neometafisici novecenteschi e attuali, restaurando continuità interrotte dalla nostra storia sociale, rischiano di mettersi in maschera, di recitare in costumi antichi antiche verità, attualizzando categorie ascetiche e mistiche di cui, nel presente, si riesce ad avere appena un'idea, in mancanza di pratiche e di esperienze adeguate.

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