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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2011 alle ore 10:07.

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Cento milioni di crediti industriali concessi all'Eni o a Luxottica sono rischiosi come cento milioni di obbligazioni derivate da un pacco di mutui immobiliari dati a-chissà-chi? Una banca italiana esposta a un rischio-derivati per il 10% del proprio capitale di base ha bisogno di rafforzare i suoi coefficienti patrimoniali come una banca tedesca il cui rischio-strutturati pesa per più del 50% del suo Tier 1 Capital (il cuscinetto di capitale che serve ad assorbire perdite impreviste)?

L'accordo Ue sulla ricapitalizzazione delle banche e soprattutto le stime preliminari dell'Eba sui fabbisogni di nuovi mezzi hanno provocato forti critiche da parte delle comunità bancaria italiana. I portavoce più polemici sono stati Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo e grande azionista di Intesa Sanpaolo, Carlo Fratta Pasini e Alessandro Azzi, i due leader del grande e piccolo credito cooperativo nazionale.

L'oggetto del contendere è noto. Quanto è attendibile quest'ennesimo stress test condotto dalla nuova authority bancaria Ue, presieduta dall'italiano Andrea Enria? È corretto alzare, subito e indiscriminatamente, l'asticella del Core Tier 1 al 9%? Le banche italiane hanno davvero bisogno di circa 15 miliardi, anticipando gli obiettivi di rafforzamento patrimoniale che Basilea 3 graduava nell'arco dell'intero decennio? Dare una risposta definitiva non è facile ma l'impressione è che le decisioni dell'authority Ue siano state troppo influenzate dalle lobby finanziarie anglosassoni. Questa considerazione è confermata da un'analisi dei bilanci 2010 del credito dell'eurozona. Il tendenziale azzardo morale del banchiere che cerca anzitutto l'extraprofitto speculativo sui mercati è stato infatti trattato meglio rispetto all'attività creditizia tradizionale che consiste nel raccogliere (e tutelare) il risparmio delle famiglie e finanziare le imprese produttive, l'occupazione, la crescita. Il sistema bancario tedesco, tanto per fare un esempio, vede pesare per oltre il 60% sul suo Tier 1 Capital il rischio in strumenti finanziari contabilizzati (come i Cdo, gli Abs, pronti contro termine strutturati).

Bene: il rischio comparato del sistema bancario italiano a fine 2010 era meno di un quarto di quello tedesco (16%) e poco più di un terzo di quello medio aggregato francese (45%).

Ma c'è dell'altro. La prevalente esposizione delle banche italiane verso le imprese è stata certificata nell'ultimo anno da un revisore d'eccezione: la Banca d'Italia di Mario Draghi. Decine e decine di ispettori sono stati sguinzagliati per un'operazione di pulizia simultanea dei portafogli "corporate" di tutti le maggiori gruppi del Paese. Su quella base-dati il prossimo presidente della Bce, lo scorso febbraio, ha sollecitato una ricapitalizzazione del sistema che ha visto una risposta estesa e in tempo reale (da Intesa Sanpaolo fino all'operazione annunciata ieri dalla Popolare di Milano). La Germania del 2011 resta invece quella contro la quale l'allora commissario Ue al'Antitrust, Mario Monti, condusse una battaglia di "par condicio di mercato", chiedendo che venisse tolta la garanzia dello Stato alle Landesbanken e Sparkassen che già folleggiavano in derivati perché si sentivano le spalle coperte.

Chi, però, difende l'operato dell'Eba punta l'indice sull'incognita-Italia. Il sistema bancario italiano, l'unico a non aver accusato fallimenti e a non aver svenato il bilancio pubblico in salvataggi, soffre del rischio sovrano e cioè i titoli di Stato, quelli l'Europa vuole che siano contabilizzati "mark-to-market". Con due effetti immediati. Il primo è l'ennesima penalizzazione di quelle banche che tengono in portafoglio quote rilevanti di titoli domestici di un Paese sotto pressione speculativa (primo fra tutte l'Italia). Il secondo è che gli istituti non virtuosi di un Paese solido (è il caso della Germania e della Francia) possono perfino registrare plusvalenze utili a compensare perdite speculative.

E proprio qui sorge un nuovo problema fondamentale. Imporre il mark-to-market sui titoli sovrani significa mettere in discussione (in misura implicita, ma non per questo meno insidiosa) la solvibilità del Paese emittente. Una valutazione che non dovrebbe affidata a tecnici ma dovrebbe essere inserita nel quadro politico generale volto a sostenere la difesa dell'euro. Senza dimenticare che questa misura ha conseguenze rivelanti anche nella capitalizzazione delle banche italiane. E fortuna vuole che il depositante italiano, ormai, abbia capito che una "banca che cade in Borsa" non è sinonimo di banca in difficoltà. Come, al contrario, ci insegna il fallimento dell'americana Lehman, l'esplosione dell'olandese Abn Amro. O più recentemente lo spezzatino della franco-belga Dexia.

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