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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2014 alle ore 18:26.
L'ultima modifica è del 07 ottobre 2014 alle ore 07:47.
Non si arresta la caduta del prezzo del petrolio, in un mercato che sembra ormai orientato in modo sempre più convinto verso scenari ribassisti. Il petrolio Brent - sceso fino a 91,27 dollari al barile, il minimo da giugno 2012 - è ormai ufficialmente in bear market: la quotazione è cioè arretrata di oltre il 20% rispetto al picco dello scorso giugno. Ma la vera novità riguarda un improvviso intensificarsi delle vendite anche sulle scadenze più lontane dei futures: un cambio di rotta avvenuto solo qualche giorno fa e che potrebbe segnalare il diffondersi della convinzione che l’abbondanza di greggio che oggi deprime i mercati durerà a lungo.
I futures riferiti al Brent per consegna nel 2017 e oltre, che di solito sono poco scambiati e soggetti a oscillazioni di prezzo molto lievi, hanno cominciato la settimana scorsa a cadere con un'intensità analoga a quella delle scadenze vicine. Qualcosa di simile, anche se meno accentuato, è accaduto al Wti. Anche la liquidità è aumentata: gli scambi sul Brent per dicembre 2017 giovedì scorso sono addirittura quadruplicati rispetto alla media (anche se a 6.800 lotti restano bassi).
Il fenomeno ha diverse possibili spiegazioni. Un'ipotesi è che ci sia stata un'attività di chiusura di posizioni da parte di grandi hedge fund: il trimestre è appena finito, per qualche fondo con perdite - e riscatti - pesanti. Ma la responsabilità potrebbe anche essere di produttori di petrolio intenti a coprirsi dal rischio di ulteriori cadute di prezzo: uno scenario che evidentemente adesso è ritenuto più probabile.
Le previsioni di lungo termine sono sempre un azzardo. Ma di certo, oggi come oggi, il mercato del petrolio presenta fondamentali decisamente deboli, con consumi bassi e un’offerta che invece è sempre più generosa: da da parte degli Stati Uniti, dove grazie allo shale oil la produzione è ai massimi da 28 anni (e le importazioni si riducono), ma anche da parte della Russia - che ancora non risente il contraccolpo delle sanzioni - e dei Paesi dell’Opec. Le tensioni geopolitiche e gli scontri in Iraq e in Libia non hanno infatti disturbato l’estrazione di petrolio e l’Organizzazione degli esportatori di greggio, invece di tagliare l’output per sostenere i prezzi, sta producendo sempre di più: addirittura 30,96 milioni di barili al giorno in settembre, un record da due anni, a fronte di un tetto produttivo ufficiale di 30 mbg. La stessa Opec prevede di avere richieste per appena 28,39 mbg nel primo trimestre 2015. Eppure almeno fino al prossimo vertice, in programma per fine novembre, è improbabile che si decida a chiudere i rubinetti: l’Arabia Saudita - con una mossa che ha dato l’affondo definitivo ai prezzi del greggio - la settimana scorsa ha abbassato i listini prezzi per novembre, concendendo sconti così forti da rendere evidente che la sua priorità in questo momento non è difendere le quotazioni del barile, ma le sue quote di mercato, sempre più assediate dalla concorrenza.
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