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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2012 alle ore 08:27.
L'ultima modifica è del 26 giugno 2012 alle ore 08:27.

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La strada più veloce ed efficace per arrivare all'unione bancaria può passare attraverso la Banca centrale europea, se la politica le consentirà di diventare il supervisore bancario, portando alle conseguenze ultime l'evoluzione già in corso sui prestiti alle banche. È una strada che non richiede né modifiche dei Trattati, né l'intervento di Parlamenti e consultazioni popolari.

Forse non è la strada ideale, perché una banca centrale che torna ad avere tutti i poteri di vigilanza presenta rischi, anche per la politica monetaria. Ma è senz'altro meglio dell'unica alternativa possibile oggi: di dare maggiori poteri all'Autorità bancaria europea (Eba), che è un istituzione debole, incapace perciò di resistere alle pressioni della politica, o delle autorità di vigilanza nazionali più potenti. Forse è per questo che questa seconda strada piace di più ad inglesi e tedeschi.

L'unione bancaria è divenuta una priorità nell'agenda politica dell'Unione, di fronte alla perdurante instabilità che nasce dal ciclo vizioso tra debiti sovrani e debiti bancari. Una vera unione bancaria significa – a regime - avere banche europee, che vengono sorvegliate con regole comuni da un supervisore europeo, pagano tasse all'Unione e vengono assicurate e liquidate – se del caso – sempre dall'Unione. Come arrivare a questo obiettivo complesso ed ambizioso nel modo più efficiente?

La strada è rappresentata da un'evoluzione della Bce che abbia come perno le regole che governano i prestiti alle banche. È la cosiddetta funzione di prestatore di ultima istanza che la Bce già svolge – lo specifichiamo solo per i tanti ignoranti che continuano a citarla a sproposito, anche tra chi ha rivestito cariche istituzionali – il cavallo di Troia che può far fare passi ampi e rapidi verso l'unione bancaria. Il prestito della Bce alle banche ha avuto, dall'inizio della crisi nel 2008, un'evoluzione tanto radicale, quanto silenziosa. Prima della crisi, il prestito della Bce alle banche poteva essere definito con due aggettivi: marginale e automatico.

Era un prestito relativamente marginale, perché le banche – escludendo la raccolta tramite depositi - si rifinanziavano principalmente sul mercato interbancario e all'ingrosso. Era un prestito caratterizzato da forti automatismi: le banche accedevano al credito della Bce offrendo garanzie. Tali garanzie erano essenzialmente titoli di Stato, tendenzialmente di breve periodo, con un valore automaticamente certificato dai giudizi delle agenzie di rating. Insomma, nei bei tempi normali la Bce, come tutte le banche centrali, assomigliava molto a un bancomat – niente rischio liquidità e nemmeno insolvenza - per di più poco importante quantitativamente.

Ma i tempi normali sono finiti. Da un lato, i mercati interbancario e all'ingrosso sono entrati in una fase di asfissia, con momenti più o meno acuti. La Bce, da prestatore di ultima istanza, è divenuta prestatore di prima istanza. Ma soprattutto, ora la Bce si assume dei rischi: i titoli che le banche offrono in garanzia sono sempre più eterogenei, nella durata, come per le caratteristiche del debitore. Ora la Bce deve valutare caso per caso quali sono le caratteristiche di solvibilità del portafoglio titoli che ogni banca presenta. La Bce non può più affidarsi ad automatismi, compresi quelli – da tutti ancora colpevolmente assecondati – legati ai giudizi delle agenzie.

Per far credito alle banche, la Bce deve avere e richiedere sempre più informazioni, che siano accessibili in maniera diretta, completa e rapida. In altri termini, la Bce deve avere gli stessi poteri di un supervisore bancario a tutti gli effetti. La Bce è già su questa strada: la sua discrezionalità – quindi la sua assunzione di rischio – è progressivamente aumentata, come hanno dimostrato anche negli ultimi giorni le novità in tema di regole proprio sui collaterali dei prestiti alle banche.

La Bce può proseguire su questa strada, rendendo da un lato sempre più ampi i margini di erogazione del credito, dall'altro sempre più pervasive e penetranti sia le richieste informative sia le condizioni e i vincoli di erogazione del credito stesso. La Bce può divenire sul campo il soggetto istituzionale che decide se una banca è europea – in quanto accede al suo credito – e a quali condizioni. Non occorrono modifiche dei Trattati, né decisioni parlamentari, né consultazioni popolari.

È questa la strada ottimale? In tempi normali e in generale l'accentramento in una banca centrale sia della politica monetaria sia di tutta la politica di vigilanza significa assumere dei rischi che possono minare l'efficacia di entrambe le politiche. Ma questi non sono tempi normali. E soprattutto va evitata un'altra strada, che è peggiore: dare maggiori poteri all'attuale Eba. Cosi com'è, l'Eba è un soggetto istituzionalmente debole, né indipendente né "accountable", preda delle pressioni della politica, o dei supervisori nazionali più influenti, come gli inglesi o i tedeschi. Sarà allora un caso, ma una Bce più forte nella vigilanza pare non piaccia né a Londra né a Francoforte.

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