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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2011 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2011 alle ore 08:43.

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Come in molti avevano previsto, le decisioni prese nell'ultimo vertice europeo di poche settimane fa si sono rivelate del tutto inadeguate ad arrestare la crisi. Cosa fare per interrompere il dilagare della sfiducia?
La risposta ufficiale dei politici tedeschi è: dovete rimettere in ordine i conti pubblici e riformare l'economia. Non c'è dubbio che ciò vada fatto; è impensabile che i Paesi del Sud Europa escano dalla crisi se non riescono a recuperare la capacità di crescita e a risanare la finanza pubblica.

Ma sarà sufficiente tutto questo? Ormai è sempre più evidente che la risposta è negativa. Le riforme nazionali sono una condizione necessaria ma non sufficiente per arrestare la crisi. La ragione è che la sfiducia non riguarda più il singolo Paese, ma l'intera zona euro.
Ormai si è diffusa la convinzione che le fondamenta stesse dell'euro sono viziate da un difetto costitutivo. In tutti i Paesi avanzati, la banca centrale ha il compito di tutelare la stabilità finanziaria, agendo da prestatore di ultima istanza. La Bce questo compito può svolgerlo solo a metà: essa può offrire liquidità alle banche in difficoltà, ma non può farlo nei confronti degli Stati dell'euro. Il risultato è che i Paesi ad alto debito pubblico sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati. Fino a che la fiducia dura, tutto va bene. Se per qualche ragione la fiducia vacilla, il peso del debito diventa presto insostenibile.

Questo problema è aggravato da un secondo grave difetto nelle fondamenta dell'euro: la politica monetaria è stata centralizzata, ma la supervisione bancaria è rimasta una competenza nazionale. E oggi le autorità di supervisione non si fidano più l'una dell'altra. La sfiducia è così diffusa, che i supervisori nazionali impongono alle banche di non trasferire liquidità fuori dal loro Paese, per non trovarsi esposte nell'eventualità che la crisi degeneri. Siamo arrivati al paradosso di avere una moneta unica, con 17 mercati bancari e del debito pubblico segmentati dai confini nazionali, che praticano tassi di interesse diversi alla loro clientela. Una situazione del genere non può durare a lungo.

È difficile immaginare un ritorno della fiducia se questi difetti costitutivi non sono corretti. Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato. Le istituzioni monetarie dei Paesi avanzati sono il frutto di una lenta e graduale evoluzione, di processi di prova ed errore in seguito ad eventi quali la grande recessione degli anni 30 e gli shock inflazionistici degli anni 70. I padri fondatori dell'euro sono stati troppo ambiziosi: essi hanno disegnato al tavolino un sistema particolarmente innovativo, e poi lo hanno blindato in un trattato internazionale. Ora stiamo scoprendo che, nelle circostanze estreme scatenate dalla crisi finanziaria del 2008, il sistema non riesce più a funzionare. È giunto il momento di ammetterlo, dichiarando apertamente che il trattato va rivisto.

L'asta di titoli di stato tedeschi che ieri è rimasta invenduta è l'ultima conferma di quanto diffusa sia ormai la sfiducia.

Ma paradossalmente, questo evento potrebbe aiutare a sbloccare la situazione, per due ragioni. Primo, perché ha reso evidente a tutti che, nonostante la sua retorica, la Bundesbank di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza quanto meno in via temporanea nei confronti dello Stato tedesco. I titoli non venduti in asta infatti sono stati assorbiti dalla Bundesbank, che da sempre svolge questo ruolo per garantire la liquidità dei titoli tedeschi. Secondo, perché potrebbe anticipare il momento in cui anche la Bce si convince che la stabilità finanziaria, e non la stabilità dei prezzi, è la sfida su cui si gioca la sopravvivenza della moneta unica. Se anche la banca centrale tedesca è costretta a comprare il debito del suo Stato, vuol dire che è davvero giunto il momento di una svolta nella politica monetaria. Non solo tagliando più decisamente i tassi di interesse, ma anche generalizzando l'acquisto di titoli di Stato in una politica di quantitative easing analoga a quella adottata tempo addietro dalla Federal Reserve americana per sostenere l'economia e immettere liquidità.

I prossimi mesi (e forse le prossime settimane) saranno cruciali per capire se vi sarà una svolta nell'impostazione e nelle fondamenta della politica monetaria europea. Se questo non accadrà, la crisi è destinata ad aggravarsi.

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