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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2014 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 25 giugno 2014 alle ore 07:45.

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In fondo è la prima volta che il confronto che si svolge attorno al Parlamento e al Consiglio europei assume caratteri politici ben riconoscibili per i cittadini. Governi e partiti socialdemocratici sostengono politiche di rilancio della domanda, con maggiori margini di spesa e investimento. Mentre governi e i partiti popolari perseguono disciplina fiscale e riforme strutturali.

Certo, a questa divisione di sostanza politica si sovrappone sempre la divisione tra i Paesi che finora ha sovrastato la nostra capacità di interpretazione dei fatti europei. Inoltre, il fatto che la contrapposizione destra-sinistra sia diventata più chiara "dopo" il voto europeo di fine maggio anziché "prima", indica che c'è ancora strada da fare per raggiungere una democrazia compiuta, cioè un contesto deliberativo basato sulla partecipazione popolare, sull'uguaglianza tra gli elettori e sulla scelta delle priorità. Infine, il contrasto tra le proposte ha preso vigore perchè coincideva con la decisione sulle nomine partitiche delle cariche europee. Tuttavia un passo avanti è stato fatto. Sarà più difficile adesso tornare a discutere solo di scontri tra Paesi e non di confronti tra idee.
Anche in questo nuovo quadro, tuttavia, il Parlamento tedesco gioca il ruolo di terza "camera" europea, con peso politico simile e talvolta superiore a quelli del Parlamento europeo e del Consiglio.
E sarà decisivo capire se il partito socialdemocratico tedesco (Spd), incassata la presidenza a Strasburgo per Martin Schulz, rientrerà nei ranghi delle politiche della cancelliera Merkel gradite agli elettori locali.

La Bundesbank ha già lanciato l'allarme e chiesto di «rafforzare» anziché «allentare» le regole di bilancio. Renzi e Hollande dovrebbero stanare Sigmar Gabriel, capo dell'Spd, e farlo uscire dall'ambiguità. Fu Gabriel, dopo il vertice dei partiti a Parigi, ad annunciare la strategia di dilazione dei tempi in cambio di riforme di cui si discute fin dal 2013 sulle ceneri della proposta degli «accordi contrattuali» cara alla cancelliera. A ben vedere la distanza tra le parti non è grande. Infatti, come è noto ai lettori di questo giornale, i margini di allentamento dei vincoli del deficit non hanno mai messo in discussione il tetto del 3% sopra il quale scatta inesorabile una procedura di infrazione che irrigidisce le politiche di bilancio. La dilazione riguarda invece i tempi di rientro del debito. Si tratta di evitare la riduzione automatica annuale di un ventesimo dell'eccesso di debito che dovrebbe scattare dal prossimo anno. Una riduzione più graduale del debito implica anche un deficit più vicino al 3% che allo zero, giustificabile dai molti caveat inclusi nei trattati. D'altronde quando gli accordi fiscali (six-pack e two-pack) furono approvati, si previde per dicembre 2014 una loro verifica "tecnica" che ora potrebbe assumere il carattere di verifica "politica".

Il carattere negoziale degli accordi non piace a Berlino che infatti insiste sul rispetto della lettera dei Trattati. Senza un terreno giuridico saldo, la convenienza politica tende a prevalere e ad aggirare la disciplina. Ne è un esempio la Francia, che gode di maggiore autonomia politica rispetto ad altri paesi, e che da trent'anni non ha mai rispettato i propri impegni fiscali. Merkel così accusa Gabriel di «giocare col fuoco», ma Gabriel risponde che vuole solo vincolare Parigi a riforme più vigorose. Il problema è ora formalizzare in modo credibile lo scambio tra i margini fiscali e le politiche di rilancio (riforme e sostegni alla domanda). E qui le cose diventano difficili. In teoria per costruire un programma di riforme, basterebbe basarsi sulle "raccomandazioni specifiche" rivolte ai paesi dalla Commissione europea. Ma proprio a una recente riunione in Lussemburgo alcuni ministri delle Finanze hanno mostrato di non tenerle nella giusta considerazione. Lo stesso Wolfgang Schaeuble ha parlato di «impraticabilità» delle riforme richieste da Bruxelles alla Germania: «Abbiamo discusso di riforme con un'intensità priva di precedenti, ma nel caso delle proposte per la Germania bisogna vedere se siano davvero realizzabili». Si capisce anche da questi aspetti, l'accanimento per la nomina di Jean-Claude Juncker a capo della Commissione.

Poiché intervenire nelle riforme strutturali dei paesi significa interferire nel cuore della sovranità nazionale, la trattativa è difficilissima senza istituzioni comuni legittimate anche dai governi, in grado di prescrivere le riforme e controllarne la realizzazione. Non a caso, dall'Eurogruppo, dove tutto funziona sulla base dei rapporti intergovernativi, non viene alcuna nuova proposta di coordinamento delle riforme. Gli stessi francesi, gelosi della loro sovranità, dicono che chiedono solo più tempo. Nel 2013 Parigi aveva già ottenuto due anni in più per scendere sotto il 3%. Schaeuble ha gioco facile nell'osservare che i margini di flessibilità necessari sono già nei trattati. Più facile a quel punto sarà mettersi d'accordo su un piano di investimenti che sostenga l'economia, non con la riforma dei mercati del capitale e del lavoro ma con soldi pubblici. Anche in questo caso, l'incertezza è grande. Ha molto senso proporre un piano comune di investimento nel mercato dell'energia o nelle telecomunicazioni, che pesano enormemente nei ritardi dell'economia europea, ma come organizzarli, come distribuirli? Finora non si è riusciti. Il "piano per la crescita" fatto approvare da Hollande al Consiglio del giugno 2012 fu un buco nell'acqua. Così ancora una volta si ricade nell'idea di dare a ogni paese un po' di margini in più nel bilancio nazionale per gli investimenti: niente cooperazione, niente coordinamento e ognuno scelga in casa sua, anche se qualche volta finisce per privilegiare il Mose, l'Expo o il Ponte di Messina.

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