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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 15:37.

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Una miniatura del Maître de la Cité des Dames, XV secolo, manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana.Una miniatura del Maître de la Cité des Dames, XV secolo, manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana.

Vi era un tempo nella città di Lucca, e nella contrada di San Cristofano, un pellicciaio di nome Ganfo. Era costui uomo di mente grezza e sempliciotto in tutto quanto facesse, però fine e attentissimo nel suo lavoro di bottega. Ora accadde che il suddetto Ganfo s'ammalò di qualche disturbo e i medici gli decantarono i Bagni di Lucca come più utile di tutte le medicine. Per cui, essendosi Ganfo deciso d'andare ai bagni, chiese alla moglie - di nome Madonna Teodora - dei denari da portare con sé ai bagni e nutrirsi.

E la moglie gli diede dieci denari, ma dicendogli: «Bada, marito, di non spendere e spandere, con questo denaro». Ganfo si mise dunque per strada e camminando di buon passo giunse ai bagni senza aver mangiato né bevuto alcunché, salvo un tantino d'acqua. E questa la bevve quando fu giunto al torrente della Lima, poiché volendo varcare il corso d'acqua, ma senza passar sopra il ponte (dove credo che ai tempi si pagasse il pedaggio) cadde nella fiumara; ed essendo egli deboluccio mentre l'acqua fluiva nel proprio alveo con grande forza, per poco non annegò, il bischero. Ed è così che Ganfo sul suo cammino finì per bere un poco di acqua.

Giunto che fu ai bagni, andò subito a osservare quelli che si bagnavano. Ma vedendo che dentro quell'acqua v'erano centinaia di uomini nudi, disse tra sé: «Ohibò, ma come farò io a riconoscere me stesso là in mezzo a tutti quelli? Per certo mi smarrirei! Giacché è facile che mi perda in mezzo a coloro, se non mi metto qualche segno per riconoscermi che io sono io. Or come mi conoscerò tra costoro?». E pensò mettersi sulla spalla una croce di paglia, dicendo: «Mentre io avrò tal croce in sulla spalla, io sarò io». Dunque ciò che aveva deciso di fare, mise ad effetto. E la mattina seguente il sempliciotto Ganfo, nudo con la croce sulla spalla destra, entrò nel'acqua del bagno. Qui stando fermo, si guardò la spalla, vide la croce e disse di sé: «Questo sono proprio io me, e non v'è dubbio». E rimase lì senza muoversi. Ma poi sentendo venir sulle sue spalle un frescolino, si trasse nell'acqua tiepida del bagno ove si mise a galleggiare bel bello.

Ma qui accadde che la croce che aveva addosso, posata sulla sua spalla si mosse e andò a posarsi su quella d'un fiorentino che gli stava accanto. Ganfo, guardando ora a sé e non vedendo più la suddetta croce, indi voltandosi e vedendola passata sulla spalla del fiorentino, che fece? Andò verso quello e gli rese noto: «Ehi, sappi che tu sei me e io sono te». Ma quel tal fiorentino non capendo cosa intendesse, gli disse in risposta: «Vattene via, baggiano». Al che il Ganfo replicando disse: «Tu sei io me, ed io me son qual tu sei».

Al fiorentino parve che quello avesse il cervello malato di mattolica, e lo cacciò dicendo: «Vattene , ché tu sei bell'è fritto». Udendo tali parole il Ganfo sempliciotto credette che quello volesse dirgli: «Tu sei già morto». E ritenendosi tale, immantinente uscì dal bagno, si rivestì, e senza mangiar né bere se ne venne verso Lucca, non salutando chiunque incontrasse, e anche con quelli che strada facendo gli mandavano saluti restava muto come un pesce secco. Giunto che fu a Lucca, ed entrato in casa, trovò Madonna Teodora che vedendolo gli disse: «Oh Ganfo, perché tornato sei così presto?» A ciò egli risposte: «Perché son morto, dolce Teodora». Al che si gettò sul letto, senza aprire bocca, né fare alcun altro moto del sentire, mostrandosi d'essere morto davvero. E vuoi per il poco spirito ch'egli aveva, vuoi per la malattia da cui era affetto, vuoi per il tragitto senza bere o mangiare, o infine per la paura che s'era preso, fatto sta che la moglie lo ritenne morto per certo. E subito dandosi a gridare e tirarsi i capelli e lamentare suo marito Ganfo morto, trasse i vicini a confortare la sconsolata moglie d'un sì buon marito. E nel consulto di questi fu deciso ch'egli fosse sepolto, talché si misero tutti all'opera.

Venuta una bara, ivi deposto Ganfo, egli rimase immoto come un morto che si lasci trasportare o smanacciare.
I chiericanti vennero in casa a benedire il morto e, avuta la cera da distribuire com'è uso, portarono il gramo Ganfo alla chiesa onde farlo seppellire. Ma qui avvenne questo: che mentre il Ganfo, essendo così portato dai chiericanti, andava verso la chiesa per ricevere la sepoltura, vi fu una fantesca di nome Vettessa che domandò chi fosse quel morto. E le venne risposto che era Ganfo il pellicciaio, portato a sepoltura. Non appena Vettessa udì tali parole, d'un tratto prese a gridare a piena gola dicendo: «Maledetta sia l'anima di Ganfo, a quale diedi il mio pelliccione da raccorciare in quel punto e mai potei averlo indietro».

E ripeteva queste maledizioni e lamenti senza smettere. Ma qui, avendo Ganfo avuto più volte bisticci con codesta Vettessa, sentendola ora gridare, e sembrandogli che gli dicesse gravi offese, si mise a parlare e disse a piena voce: «Ah, Vettessa, Vettessa, se io fossi vivo così come son morto, saprei ben rispondere!». E tali parole uscite da morto fecero credere ai portatori di bara che vi fosse un diavolo chiuso nel feretro, ciò provocando in loro un timore così forte ch'essi lasciarono cadere tutto a terra, e il Ganfo ne fu molto ammaccato. I chierici e le persone d'attorno lo trassero fuori dalla bara e vedendo vivo dicevano:«Ma quale disgrazia t'è caduta sul capo, o Ganfo, che ti volevi far sotterrare da vivo?». E vedendosi attorno i parenti e i vicini, Ganfo raccontò loro la storia del bagno e della croce perduta, come narra Giovanni Sercambi.

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