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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:29.

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La prima volta che ho pensato che la beneficenza producesse schifezze erano le due di notte di un sabato sera di qualche anno fa. Tornato a casa dopo una serata fuori con gli amici, accesi la tv: Milly Carlucci stava conducendo la maratona televisiva Telethon. Il programma sarebbe andato avanti tutta la notte fino al pomeriggio successivo, mentre l'Italia intera telefonava per donare soldi alla ricerca scientifica.

Alcuni miei amici biologi molecolari lavoravano già a progetti di ricerca finanziati da Telethon, quindi conoscevo la serietà della fondazione. L'atmosfera Telethon è un entusiasmo da prima serata, il sorriso di Heather Parisi in un vecchio Fantastico tenuto su a forza per decine di ore: la cifra totale delle donazioni è un totem che cresce a vista d'occhio, chi conduce dà aggiornamenti di frequente, i sorrisi si stirano, la bontà ricopre ogni centimetro dello studio. Quando accesi prima di andare a dormire, Milly Carlucci stava presentando un ospite, sottolineando quanto questo artista fosse da sempre sensibile e generoso. Poi gli lasciò il centro dello studio, e partì la base (chitarra, basso, batteria, tastiera: una versione pessima dei Procol Harum). Dopo le prime battute, Al Bano Carrisi alzò il microfono alla bocca e attaccò col suo timbro poderoso: «Vaaaaa pensieeeerooo sull'aaaaliiii doraaaaateeeee». Al Bano era andato al Telethon a presentare il suo Nabucco rock. La somma di denaro raccolta dal programma gli faceva da sfondo, da cornice dorata e da scudo. In certi casi non si può che applaudire.

Nel 1984 la stampa europea cominciò a occuparsi della perdurante situazione di carestia nel Corno d'Africa, dove la guerra e la siccità stavano uccidendo centinaia di migliaia di persone. Le immagini dei bambini etiopi coperti di mosche, le pance gonfie di malnutrizione, produssero un'onda di pietà che sfociò nello sforzo di beneficenza più massiccio degli ultimi decenni. Epicentro europeo della campagna di solidarietà fu il Regno Unito, dove l'irlandese Bob Geldof, cantante dei Boomtown Rats e protagonista del film Pink Floyd The Wall uscito due anni prima, scrisse con Midge Ure degli Ultravox il singolo di Natale Do They Know It's Christmas?, coinvolgendo i più importanti musicisti pop del momento per registrare brano e videoclip. Musicalmente accattivante, con tanto di campane tubolari e coretto finale, il brano diceva nel bridge «E non ci sarà la neve in Africa questo Natale», per poi chiedersi retoricamente se «loro» sapessero del Natale. Loro erano gli abitanti dell'Africa, continente diventato puntiforme, arido, tutto uguale e moribondo dal Kilimangiaro ad Assuan per ragioni drammaturgiche.
A gennaio negli Stati Uniti prese forma Usa for Africa: un super-coro delle star voluto da Harry Belafonte, diretto da Quincy Jones e capitanato da Michael Jackson, che registrò un Lp e il singolo We Are the World. «Siamo il mondo, siamo i bambini, siamo quelli che rendono radiose le giornate, quindi cominciamo a dare», diceva il ritornello: «So let's start giving», proprio così, di slancio, come fosse uno sport.

Ancora oggi si disquisisce su quale delle due canzoni fosse intollerabilmente zuccherosa, e quale capace di gestire con eleganza l'enfasi necessaria per ottenere il risultato. Ma anche se il risultato in questi casi è quello che conta, resta da capire quale risultato persegua chi raccoglie, chi dà, chi si esibisce per la causa. Tutto confluì nel Live Aid, doppio concertone a Londra e Philadelphia in diretta mondiale. Fu un evento storico pop di proporzioni inedite, al di là della musica e della beneficenza. Il narcisismo sfacciato e praticone di Geldof riuscì dove gli appelli compìti degli opinionisti avevano fallito. Furono raccolti circa 150 milioni di sterline. Il modo in cui questi soldi furono spesi è stato messo in discussione spesso. È certo che migliaia di tonnellate di cereali siano marcite nei porti sul Mar Rosso prima di essere distribuite. È altrettanto certo che il Governo militare di Menghistu abbia usato il cibo, scortato dalle truppe, per penetrare meglio nel territorio in mano al Fronte Democratico Rivoluzionario d'Etiopia, che diversi anni dopo l'avrebbe sconfitto prendendo il potere.

Quando la Bbc due anni fa sostenne che 63 milioni di quelle sterline fossero finiti in armamenti, Geldof pretese le prove e assicurò che nemmeno un centesimo era andato perduto. La Bbc fu costretta a ritrattare e scusarsi, ma i reportage della metà degli anni Ottanta parlano di un inferno inestricabile di deportazioni di massa e signori della guerra: è difficile che le banconote britanniche siano passate indenni attraverso uno scenario del genere, solo perché figlie della buona fede del rock.
Tre anni dopo partì da Philadelphia Human Rights Now!: venti concerti organizzati da Amnesty International con un cast fisso cui si aggiungevano artisti locali a seconda del luogo. Bruce Springsteen & The E Street Band, Sting, Peter Gabriel, Tracy Chapman e Youssou N'Dour passarono anche da Torino. Vidi per la prima volta Springsteen, e per me i diritti umani e Amnesty si legarono, a quattordici anni, alla cosa più emozionante che mi fosse mai capitata. Alcune delle canzoni si portavano dietro un contenuto politico e sociale all'origine, come Biko di Gabriel o They Dance Alone di Sting. Chimes of Freedom di Bob Dylan, la cover collettiva che era il manifesto dell'operazione, funzionava da parecchi anni. Allora si era in grado di esibirsi davanti a un pubblico per una causa benefica, senza che la compassione e la generosità esibite finissero dentro alla musica, inzuppandola di lacrimoni. Il rock&roll di 25 anni fa era ancora sociale per natura, senza bisogno di fare sociologia: aveva al proprio interno i germi della retorica, e ci giocava consapevolmente, compresi i sottotesti politici più o meno totalitari con cui dialogava sul palco qualsiasi rockstar idolatrata.

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