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Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2012 alle ore 17:46.

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Palestina all'Onu, un voto per i moderati contro gli estremistiPalestina all'Onu, un voto per i moderati contro gli estremisti

I palestinesi nel mondo sono 11 milioni, per la metà profughi dispersi in vari stati del Medio Oriente, 4,2 milioni sono a Cisgiordania e Gaza, un milione sono cittadini di Israele.

Gli ebrei israeliani sono sei milioni e hanno uno stato, i palestinesi no: dopo avere rifiutato la spartizione del 1947 hanno perso tutte le guerre dal ' 48 a oggi. Nella Palestina storica (Israele più i Territori) vivono 12 milioni di abitanti su 27mila chlometri quadrati: la popolazione israeliana, utilizza più dell'85% della terra, quella araba circa il 15%. Un palestinese in media occupa meno di un quarto della terra di un israeliano.

Se dopo 64 anni la Palestina diventa "stato osservatore non membro" dell'Onu non pare uno scandalo e neppure un ostacolo a ipotetiche trattative di pace come intende far credere Tel Aviv. I negoziati sono fermi da anni e non si ha nessuna intenzione di riprenderli, soprattutto dopo la guerra di Gaza e l'ascesa della destra radicale israeliana che intendere preseverare con la politica delle colonie.

E' una situazione bloccata in cui le parti pensano di avere il diritto e la ragione alla propria parte. Non solo. Su entrambi i fronti sono i più estremisti, i sionisti radicali e gli islamici, che decidono della pace o della guerra. E di solito scelgono la seconda.

Che il riconoscimento dell'Onu sia andato alla Palestina di Abuz Mazen dovrebbe costituire per Israele un vantaggio. Abu Mazen non si presenta stringendo un ramoscello d'ulivo ma non brandisce neppure la pistola al fianco come fece Arafat all'Onu nel lontano novembre 1974, presentandosi con la kefiah a scacchi, l'unico oggetto di marketing di successo palestinese passato dai rivoluzionari al collo di manager giovanilisti. Il leader di Ramallah è un signore in giacca e cravatta, laico e moderato per gli standard della regione.

Per quale motivo non dare una chance agli arabi più ragionevoli? Perché un settore della parte avversa non è disposto a riconoscere ai palestinesi alcun diritto, se non quello di andarsene, magari in Giordania.

Gli islamici di Hamas e dei Fratelli Musulmani, affiancati da salafiti e jihadisti, si fregano le mani per la soddisfazione: il loro obiettivo non è avere adesso uno stato ma divorare consensi e ottenere l'egemonia sull'intero movimento palestinese.

Per Hamas l'internazionale islamica, con la sua rete di alleanze e le casse piene di quattrini, è più importante di uno stato fantoccio in cui mediare dei compromessi con i laici: hanno obiettivi di lungo termine, arrivare un giorno all'egemonia, a uno stato in cui saranno padroni senza avere tra i piedi i moderati. Come prova a fare il Fratello Morsi al Cairo.

Questa è la cruda realtà in un Medio Oriente dove le guerre e le occasioni di conflitto si moltiplicano, dalla Siria all'Iran, dall'Iraq al Libano. Per non parlare di quanto accade in Egitto o potrebbe avvenire nel prossimo futuro in Giordania. Sullo sfondo di vecchie e nuove battaglie ci sono ancora gli interessi sul gas e il petrolio, la fame europea dei capitali del Golfo, un'America sempre più indecisa se lasciar fare agli attori locali o intervenire.

Non è questo voto all'Onu, che pure arriva sull'onda lunga della primavera araba, a cambiare le cose: è un riconoscimento morale che non incide sulla sostanza se non in modo marginale e non sancisce nei fatti, come afferma Abu Mazen, l'unità tra Gaza e Cisgiordania.

In un'Europa, al solito divisa, suscita un labile interesse; in Italia, che dopo molto esitazioni si è pronunciata per il sì evitando un'irrilevante astensione, fa sollevare per un momento lo sguardo verso l'orizzonte del Mediterraneo, chiamato in un tempo assai lontano Mare Nostrum. In ogni caso questa volta, grazie anche alle pressioni interne alla stessa diplomazia e alle istituzioni, non si è replicata l'ennesima opaca presenza della politica estera italiana: è già un buon risultato

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