Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2014 alle ore 10:20.

My24

Tra la fine del Secondo tragico Fantozzi (1976) e l'inizio di Fantozzi contro tutti (1980) si consuma uno dei grandi rivolgimenti della storia d'Italia. Certo, direte voi: ci sono di mezzo il caso Moro, l'unità nazionale, la strage di Bologna, la P2… No, niente di tutto questo. Meglio fare un ripasso.

Nel film di Luciano Salce, all'inizio del secondo tempo, Fantozzi è assunto nella megaditta con la qualifica di spugnetta per francobolli: grazie alla soffiata di un capousciere corrotto, ha saputo rispondere alle strane domande che il professor Riccardelli, il direttore con l'assillo della cinefilia, gli ha rivolto durante l'esame attitudinale. Ha saputo dire chi è Griffith e ha lodato con grande enfasi l'espressionismo tedesco. È l'episodio arcinoto della Corazzata Potëmkin: il cineforum aziendale, il divieto di vedere Italia-Inghilterra, la ribellione, la «cagata pazzesca», i 92 minuti di applausi, Giovannona Coscialunga, infine le misure controrivoluzionarie e la gogna pubblica. Passano neppure quattro anni, e Fantozzi contro tutti – capitolo successivo della saga, diretto stavolta da Neri Parenti e dallo stesso Villaggio – si apre su tutt'altro scenario: il ragioniere ha una frenetica urgenza di tornare a casa dopo l'orario di lavoro perché sulla credenza lo attende il suo nuovo feticcio, il telecomando. È così inebriato dallo zapping compulsivo da aver stabilito il record condominiale, 380 cambi di canale in 26 secondi netti. E non è più in ginocchio sui ceci. Cos'era accaduto? Proprio nel 1976, mentre l'impiegato-spugnetta subiva estenuanti proiezioni di film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco, la Corte costituzionale aveva ammesso la trasmissione via etere delle tv locali. Si sgretolava il già pericolante monopolio Rai, e alla fine del 1980 Canale 5 mandava in onda il suo primo grande evento sportivo, che non era Italia-Inghilterra ma il Mundialito. L'era berlusconiana era cominciata. E così un profondo sommovimento per il quale lo storico Giovanni Orsina, nel libro Il berlusconismo nella storia d'Italia (Marsilio), ha trovato le parole più adatte. In breve, le culture dominanti dell'Italia post-unitaria (dal cattolicesimo al marxismo all'azionismo), pur se contrapposte, erano accomunate da un'ambizione «ortopedica e pedagogica»: puntavano cioè a raddrizzare e a rieducare gli italiani, a elevarli culturalmente e civilmente. La televisione pubblica era stata uno degli strumenti di questa ambizione; un altro – specie per i comunisti – era stato il cinema. L'avvento del berlusconismo come cultura politica, ma prima ancora come intrattenimento televisivo, segna in questo una cesura. Per la prima volta, spiega Orsina, agli italiani vien detto che vanno benissimo così come sono, e che anzi fanno bene a guardare con un po' di diffidenza le élite dirigenti e le loro pedagogie. Questo terremoto storico, meglio che in qualunque esempio di «cinema civile», lo si può cogliere nello scarto tra il Fantozzi pedagogizzato che deve sacrificare la partita (e la frittata di cipolle) al film d'essai e il Fantozzi liberato o diversamente suddito che ha impugnato infine lo scettro del comando. Anzi, del telecomando.

Il cinema come specchio della storia, dunque? Non lo si pensa più forse dai tempi del neorealismo, anche se la formula continua a ronzare nell'aria. Ma dello specchio, lo schermo cinematografico conserva senz'altro una proprietà: quella di mostrare le figure capovolte, di invertire la destra e la sinistra. Per esempio, appare chiaro che spesso il cinema politico è involontariamente comico (chi ha visto Le ombre rosse di Citto Maselli o Viva la libertà di Roberto Andò sa bene cosa intendo) mentre la commedia è da sempre, in Italia, la forma principale di cinema politico. E gli intellettuali hanno faticato molto a capire la commedia, ma la commedia ha capito benissimo gli intellettuali, offrendo ritratti magnifici dei loro tic, dei loro vezzi e delle loro infatuazioni, da Una vita difficile di Risi a La terrazza di Scola. E qui però bisogna intendersi: ci sono fior di intellettuali che hanno capito e amato la commedia, o che l'hanno perfino praticata (chi se lo dimentica, Luciano Bianciardi nel Merlo maschio?), e oltretutto uomini della cultura di Steno, Salce o Festa Campanile non è che fossero manovali. Ma questo non basta a cancellare il tenace, longevo pregiudizio – figlio proprio delle culture di cui parla Orsina – che vede nella commedia una galleria di maschere dell'italianità deteriore, un concentrato di quei vizi che una sana ortopedia civile avrebbe dovuto correggere (l'italiano qualunquista, maneggione, servile, cialtrone, il cui emblema è Alberto Sordi). È una vecchia storia. Concita De Gregorio che esce allibita dalla proiezione dei Soliti idioti, «uno specchio che rimanda il vuoto», o Curzio Maltese che definisce il cinepanettone «lo specchio di una certa Italia maggioritaria, felicemente anomala e volgare» sono solo due esempi recenti, e neppure si contano gli «specchi» di questa o quell'altra cosa evocati nelle recensioni a Checco Zalone.
Ma sono luoghi comuni. Altro che disimpegno, la commedia è stata il campo di battaglia su cui si sono combattute le cultural wars del gusto e della distinzione, i conflitti tra arte colta e spettacolo popolare, le lotte sanguinose tra le pretese ortopedico-pedagogiche delle élite nazionali e la renitenza, se non l'aperta resistenza, a quelle imposizioni. Sono guerre politiche, anzi di più: sono conflitti di classe, se è vero quel che ha insegnato Pierre Bourdieu, e cioè che i gusti hanno il loro fondamento non già nel cielo spirituale dell'estetica ma sul terreno più prosaico delle appartenenze sociali. È proprio ricorrendo a Bourdieu che Giacomo Manzoli, nel libro Da Ercole a Fantozzi (Carocci), ha ricostruito alcuni capitoli di questa guerra, il cui attentato di Sarajevo è lo sputo nell'occhio di Totò per «premiare il talento» di un imitatore di Picasso (Totò a colori). Le ostilità proseguono con il Peppino De Filippo dei Pappagalli trascinato suo malgrado a un vernissage di arte d'avanguardia, che al giovane scamiciato che gli chiede dov'è Dalì risponde perplesso: «Di là». E se il culmine della guerra rivoluzionaria, la presa del Palazzo d'Inverno, è ovviamente la Corazzata del Secondo tragico Fantozzi, di lì a poco arriverà il Sordi delle Vacanze intelligenti – episodio del film Dove vai in vacanza? –: il fruttivendolo trascinato dai figli istruiti in una crudele Odissea culturale fatta di concerti di musica sperimentale e inspiegabili installazioni della Biennale.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi