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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 10 dicembre 2014 alle ore 09:20.

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Gli istituti di credito, nella vicenda Ilva, non sono una variabile indipendente. Soprattutto adesso che il debito bancario consolidato dell’azienda commissariata dallo Stato veleggia verso gli 1,5 miliardi di euro.
Ieri pomeriggio il commissario straordinario Piero Gnudi ha incontrato, a Milano, il middle management di Arcelor Mittal. E questo pomeriggio a Roma, Arcelor Mittal – probabilmente rappresentata dal figlio di Lakshmi Mittal, Aditya, Cfo del gruppo e Ceo dell’area europea – incontrerà il consigliere del premier Renzi e plenipotenziario per le questioni economiche Andrea Guerra, lo stesso Gnudi e il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.
Intanto, però, si va chiarendo un altro dei nodi aggrovigliati di questa vicenda: il tema delle banche.

Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banco Popolare non se la sono sentita di lasciare l’impresa al suo destino. E, dieci giorni fa, hanno staccato l’ultimo assegno da 125 milioni di euro. Lo hanno fatto nonostante le sedici pagine di dichiarazione di interesse non vincolante, sottoposte tre settimane fa da Arcelor Mittal al Governo ,non contenessero la cifra che i banchieri avevano giudicato “indispensabile” per aprire di nuovo i cordoni della borsa. Anche in virtù delle pressioni esercitate da un Governo preoccupato che la miccia del dissesto finanziario non controllato faccia deflagrare la bomba economica e sociale dell'Ilva, è stata completata la tranche da 250 milioni di euro concessa dalle banche al commissario Piero Gnudi, a fronte dei 650 milioni di euro richiesti da quest’ultimo. Centoventicinque milioni necessari per pagare, il 12 dicembre, gli stipendi e le tredicesime dei dodicimila dipendenti.

A questo punto, dunque, la somma complessiva del debito bancario consolidato è salita a 1,45 miliardi di euro: il 62% riferibile a Intesa, il 20% a Unicredit e il 18% al Banco Popolare. Il problema, però, non è tanto la cifra in sè. Il problema è il contesto sistemico . Ed è quello che in molti, adesso, si aspettano dalle banche. Cinque anni di recessione si sono fatti sentire. Al 30 settembre Unicredit ha iscritto a bilancio uno stock di 41 miliardi di crediti deteriorati netti. Il Banco Popolare 14,9 miliardi. Intesa Sanpaolo 32,6 miliardi. Le tre banche, dunque, hanno in pancia 88,5 miliardi di euro di crediti deteriorati netti.
Se qualcuno chiedesse agli istituti un ulteriore sforzo – in termini di conversione della totalità o di una parte dei crediti in capitale della Ilva prossima ventura – la situazione potrebbe entrare in una tipica ambiguità da capitalismo italiano: quando, sull’emergenza finanziaria e alla ricerca di brillanti soluzioni di sistema, sembra che ogni tassello sia andato al suo posto, mentre il profilo del mosaico assume contorni in apparenza nitidi, ma in cui allignano criticità potenziali.

Ogni ipotesi di conversione di crediti in equity farebbe il paio comunque con la necessità di finanziare il circolante di una impresa che, quando era a regime, – con oltre otto milioni di tonnellate di produzione – aveva un magazzino del valore di 1,5 miliardi e 5 miliardi di euro di acquisti.
Per fare ripartire la macchina – qualunque sia l’ipotesi di ingegneria societaria approntata dal Governo – dovrebbero servirefra i 600 milioni e il miliardo di euro: per coprire i debiti verso i fornitori scaduti da tempo e per finanziare il circolante. Soldi che dovranno essere – per forza – messi dalle banche. Che potrebbero andare in cortocircuito, qualora si trovassero fra la Scilla della trasformazione in capitale dei vecchi crediti e la Cariddi della attivazione di quelli nuovi.

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