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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2013 alle ore 07:03.
L'ultima modifica è del 20 dicembre 2013 alle ore 17:07.

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Davide Serra alla LeopoldaDavide Serra alla Leopolda

Sono andato a Londra a conoscere Davide Serra, il finanziere italiano amico e sostenitore di Matteo Renzi, un piccolo imprenditore della finanza e un investitore istituzionale molto rispettato nella City, ma descritto come l'uomo nero negli ambienti dell'establishment politico, giornalistico e culturale italiano, in particolare in quello vicino al mondo Pci-Pds-Ds e in una parte del Partito Democratico.

Serra mi ha ricevuto una mattina di fine novembre al terzo piano di una tradizionale palazzina con i mattoni rossi vicino a Savile Row, la strada delle sartorie su misura al centro di Londra. L'ufficio è grande e spazioso per i cinque o sei analisti incollati agli schermi del computer. Per terra c'è un parquet a lista lunga e le grandi finestre attraggono la luce di un insolito sole londinese. All'ingresso una pila di Financial Times ancora cellofanati. In un angolo un table football, un biliardino. Ma la prima cosa che si nota entrando ad Algebris Investments, così si chiama la società fondata e gestita da Serra, è che alle pareti ci sono tre enormi fotografie di altrettanti premi Nobel, non per l'Economia, ma per la Pace. Sono Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi, il Dalai Lama, fotografati dal tedesco Peter Badge. C'è una quarta immagine, che si intravede attraverso le pareti a vetro dell'ufficio personale di Serra, dove il titolare è impegnato in una discussione in francese. È una gigantografia di Jimmy Carter, altro Nobel per la Pace, scattata sempre da Badge. Non in primo piano come le altre, ma seduto su una sedia a dondolo. Jimmy Carter. Non è esattamente l'iconografia che mi sarei aspettato di trovare nell'ufficio di un finanziere accusato dagli avversari interni di Matteo Renzi di essere uno squalo residente alle Cayman. Sembra l'ufficio di Walter Veltroni, non di Gordon Gekko. «Sono pacifista, pacifista convinto... per me la pace è tutto», mi dice Serra spiegandomi la provenienza delle foto. Sono state acquistate a un'asta benefica a Berlino, dove c'era anche Angela Merkel. Serra ha comprato i tre ritratti, ma avendo quattro figli ha chiesto al fotografo di vendergli anche una quarta foto di un Nobel per la Pace, e ha scelto l'ex presidente democratico americano sconfitto da Ronald Reagan. Serra mi fa accomodare nella sala riunioni adiacente al suo ufficio. Si toglie la giacca e posa lo smartphone sul tavolo (lo prenderà soltanto due volte per mandare un sms a un amico e per rispondere alla moglie su questioni di famiglia).

Davide Serra ha 42 anni, una moglie e quattro figli. Ha studiato alla Bocconi e vent'anni fa si è trasferito a Londra. Ha lavorato in varie banche d'affari ed è diventato una star delle analisi dei mercati globali a Morgan Stanley, è stato premiato come Young Global Leader dal World Economic Forum e nel 2006 ha fondato la sua boutique di asset management, Algebris Investments, un fondo che gestisce circa due miliardi di dollari e con il quale ha iniziato a farsi notare per le battaglie anche generazionali su Generali e per i super rendimenti che garantisce agli investitori, in particolare con il fondo CoCo, segnalato l'anno scorso dal Financial Times come uno dei più remunerativi sulla piazza londinese. Quando parla si sente che ragiona in inglese e che talvolta è costretto a tradurre nella sua lingua madre, un idioma che ormai parla solo con i figli e con i giornalisti come me. L'approccio è anglosassone: diretto, deciso, a tratti impudente. Appare sfacciato a un occhio italiano, e non c'è dubbio che sia radicale nelle proposte. Serra parla spesso dei suoi figli, ci tiene ai valori tradizionali della famiglia italiana, è cattolico, aiuta la chiesa italiana locale e dona 50mila sterline l'anno al Saint Peters Project, di cui è patron, che fornisce duemila pasti l'anno e assistenza agli italiani di Londra in difficoltà. L'unica cosa che ha in comune con Berlusconi è la capacità di fare soldi, ma precisa che lui opera in regime di concorrenza globale, mentre Berlusconi soltanto localmente e sempre protetto dalla politica.

Non sono andato a trovare Serra per parlare dei suoi affari, ma per farmi raccontare in modo ordinato che cosa propone realmente per il nostro Paese, vista la sua esposizione a favore di Renzi e l'influenza che può esercitare sul nuovo leader del centrosinistra. L'avevo ascoltato alla Leopolda, e mi avevano colpito molto le accuse feroci dell'ala ex comunista ed ex diessina di quello che in fondo è il suo stesso partito. Trovo meraviglioso che gli stessi fan della merchant bank che non parla inglese, quelli che davano di gomito ai capitani coraggiosi (coraggiosi, ma con gli asset pubblici) e si congratulavano con i banchieri in coda alle primarie Pd ora siano improvvisamente indignati per un quarantenne che fa sul serio il finanziere nella piazza più importante del mondo.

Insomma sono andato a Londra per sapere come Serra cambierebbe l'Italia, lui che sa fare di conto. Come la salverebbe. Serra è abituato a parlare con i dati, più che con le parole. Mi consegna 43 pagine di analisi numerica dei problemi del nostro Paese. «I fatti». Le slide, in parte riprodotte su queste pagine, sezionano il Paese e i suoi fondamentali come se fossero un'azienda o un'idea su cui decidere se investire o meno. È il metodo dell'analista finanziario: aritmetico, non politico. «Qui – dice mostrando le slide – ci sono la diagnosi, il tumore e la strategia di aggressione del cancro». Si può fare, aggiunge, «ce la possiamo fare, altrimenti non starei qui a parlarne, ma bisogna agire subito e in modo radicale».

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