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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2013 alle ore 08:36.

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I «nanoproiettili» anti-cancro, capsule grandi un settantesimo di un globulo rosso che aggrediscono le cellule tumorali senza colpire i tessuti sani; una necropoli pre-buddista nella valle dello Swat, nel nordovest del Pakistan; le dinamiche dell'esplosione di una supernova, avvenuta cinque miliardi di anni prima che «nascesse» il nostro sistema solare.

Nell'università italiana non si discute solo di eterne riforme, di tagli o di combine nei concorsi, e questi esempi tratti dagli ultimi studi partiti dalle aule e dai laboratori di casa nostra lo dimostrano. Ma che cosa è successo negli atenei e negli enti di ricerca italiani fra 2004 e 2010? Quali dipartimenti hanno lavorato di più e meglio, e quali invece sono stati schiacciati dalla disorganizzazione o dall'assenza di talento? In quali settori abbiamo ottenuto i risultati migliori e dove, invece, zoppichiamo? Lo sapremo domani, quando l'Agenzia nazionale di Valutazione del sistema universitario, nata ufficialmente con la riforma Gelmini ma in cantiere fin dal 2007, pubblicherà i risultati dell'esame condotto in questi mesi su tutta la ricerca italiana di questi anni.

La sigla è bruttina («Vqr» che significa valutazione della qualità della ricerca), ma serve a indicare un lavoro ciclopico che, almeno nelle intenzioni, si propone obiettivi rivoluzionari: offrire un check up analitico delle attività condotte in ognuno dei dipartimenti e delle strutture analoghe disseminate in 133 fra università, consorzi ed enti di ricerca del Paese, e attive nelle 14 aree di ricerca che indirizzano gli studi e che vanno dalla matematica alle scienze politico-sociali passando per la fisica, la chimica e la medicina ma senza ovviamente dimenticare l'economia, il diritto, la filologia o la storia. Dati alla mano, sarà possibile conoscere eccellenze e punti deboli del nostro sistema, e utilizzare i soldi pubblici per premiare le prime e disincentivare i secondi.

I numeri disegnano i confini di quella che è stata definita la più grande valutazione di questo tipo a livello internazionale. Per far valutare la propria struttura, ogni docente poteva sottoporre all'esame tre «prodotti di ricerca» (un po' meno i ricercatori più giovani nelle università, e fino a sei quelli attivi negli enti di ricerca), vale a dire libri, articoli su riviste, brevetti, edizioni critiche, software e altri supporti specifici per ogni area (opere d'arte comprese). Sotto esame sono finiti così poco meno di 200mila prodotti (il 95% del numero massimo atteso, segno che gli atenei hanno risposto in massa), che sono stati valutati da 450 esperti e 15mila revisori incaricati di giudicare la qualità delle pubblicazioni in particolare attraverso la peer review, il metodo della «valutazione tra pari» in cui gli esperti di un settore vagliano l'attività dei colleghi secondo gli standard internazionali. Un'operazione enorme, arrivata in porto 20 mesi dopo essere partita (con un mese di anticipo rispetto al calendario fissato all'inizio dal ministero, e questa nell'Italia delle proroghe, fitte anche in ambito accademico, è già una notizia).

Di ogni lavoro è stata misurata la rilevanza, cioè il valore aggiunto per il miglioramento delle conoscenze nel settore, l'originalità e il proprio rapporto con l'orizzonte internazionale, con un occhio di riguardo per lo sviluppo tecnologico e le potenziali ricadute economiche nel caso dei brevetti. Da questo processo tutti i prodotti di ricerca sono usciti con un giudizio riassunto in un'etichetta in cui si riconosce come «eccellente» la pubblicazione che si colloca nel primo 20% della scala di valore, «buono» il prodotto che si attesta appena sotto, «sufficiente» chi si ferma sullo scalino inferiore e «limitato» chi non supera la metà della graduatoria complessiva. Il sistema di misurazione non ignora poi i pericoli di plagio, con una pesante penalità per chi se ne rende protagonista.

Le pagelle dei singoli lavori, però, sono solo la base nella complessa architettura elaborata dall'Anvur, che serve a valutare strutture e dipartimenti e non i singoli docenti. In quest'ottica, la qualità delle pubblicazioni serve per esempio anche a esaminare i risultati del reclutamento, perché di ogni dipartimento può essere misurata la performance nel 2004, cioè all'inizio del periodo illuminato dalla Vqr, e nel 2010, alla fine, per capire se gli ingressi dei nuovi docenti sono serviti a migliorare i risultati della struttura oppure hanno risposto ad altre logiche. Risultati che si giudicano anche in base alla capacità di utilizzare i fondi propri, di infittire la rete dei collegamenti internazionali e di attrarre risorse esterne per progetti di ricerca. Un capitolo particolare guarda poi alla capacità degli atenei di incidere sulla realtà esterna, che nelle «scienze dure» si esprime per esempio attraverso i brevetti, in area giuridico-economica genera consulenze in conto terzi mentre negli studi umanistici può sfociare nella realizzazione di scavi archeologici oppure nella collaborazione con le istituzioni museali.

A che cosa serve questo diluvio di dati? Il primo obiettivo è già indicato dalla «Gazzetta ufficiale», cioè dalle regole che impongono di destinare una fetta crescente dei finanziamenti alle università che dimostrano di meritarli, e di impiegarli per migliorare i propri risultati. Il «finanziamento competitivo» è stato già avviato, ma fino a oggi si è fondato su dati della ricerca ormai archeologici, figli della valutazione 2001-2003 che è solo la lontana antenata del lavoro di oggi. Esiste però un obiettivo più strategico, che rappresenta oggi il compito più delicato della politica sull'università. L'esperienza insegna che il diluvio di regole di dettaglio, di tetti e di vincoli fioriti sui tentativi di evitare conflitti di interessi nel reclutamento e organizzazioni fondate più sulla relazione che sul merito, si sono infrante nelle capacità elusive di chi comunque ha voluto aggirarle. Un set di informazioni puntuali e aggiornate (a fine anno arriveranno quelle sulla didattica) può servire allora a disboscare la normativa, dare un senso all'«autonomia universitaria» scritta sulla carta fin dal 1989 e lasciare agli atenei la responsabilità di compiere le scelte che preferiscono, sapendo però che i risultati di queste scelte saranno misurati e tradotti in premi per chi merita e disincentivi per chi arranca. Un'utopia? Dipende dal coraggio della politica.

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