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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 07:08.
L'ultima modifica è del 10 dicembre 2014 alle ore 11:13.

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Pur rimanendo su livelli molto alti, la pressione fiscale complessiva in Italia si è leggermente ridotta tra il 2012 e il 2013, passando dal 42,7% al 42,6% del Pil. In controtendenza rispetto all'andamento registrato dalla media dei Paesi Ocse, salita dal 33,7% al 34,1%, che si è avvicinata al tetto raggiunto nel 2000 (34,3%, quando l'Italia era al 40,6%). E' quanto emerge da uno dei rapporti “fiscali” presentati dall'organizzazione parigina.

Da un punto di vista generale, i dati evidenziano un continuo aumento negli agli anni pre-crisi, quindi una diminuzione (fino al 32,7% del 2009, quando l'Italia era al 41,9%) e poi nuovamente una crescita. Nel 2013 la pressione fiscale è salita in 21 dei 30 Paesi Ocse di cui si hanno le rilevazioni dell'anno scorso, mentre è scesa negli altri nove. Nella classifica generale l'Italia ha guadagnato una posizione, passando dal quinto al sesto posto, dopo Danimarca, Francia, Belgio, Finlandia e Svezia (dove la pressione fiscale è salita dal 42,3% al 42,8%). In coda c'è il Messico, con una pressione fiscale del 19,7 per cento.
Dal punto di vista della composizione, a fare la parte del leone in Italia sono le tasse sui redditi e i prelievi sociali (rispettivamente al 32,8% e al 30,3% del totale), con le imposte indirette sui consumi al 25,5% (32,8% la media Ocse) e quelle sui patrimoni al 6,3% (5,5% la media).

Ma il dato più interessante viene evidenziato dal secondo rapporto dell'organizzazione, dedicato all'Iva. L'Italia, come la gran parte dei Paesi Ocse, ha alzato negli ultimi cinque anni il suo tasso “normale”, portandolo prima al 21% e poi al 22% (rispetto a una media Ocse salita al 19,1% e a una media dei Paesi europei aderenti all'organizzazione aumentata al 21,7%). In termini di tasso, l'Italia si trova attualmente al dodicesimo posto, alla pari con il Belgio. Però l'Iva (il grosso della tassazione sui consumi) rappresenta per l'Italia solo il 13,8% del totale del prelievo fiscale, rispetto al 19,5% della media Ocse (i dati, in questo caso, sono del 2012).

Gli esperti dell'organizzazione si sono inoltre cimentati nel calcolare un ratio sulle entrate da Iva (una sorta di coefficiente Gini, che va da zero nel caso di inefficacia totale a uno in caso di massima efficacia, in uno scenario ipotetico in cui tutti i consumi sono soggetti a un unico tasso). La media Ocse di questa particolare classifica è pari a 0,55, con la Nuova Zelanda nettamente in testa. L'Italia, con lo 0,38, è terzultima, davanti solo a Grecia e Messico e dietro alla Turchia. A pesare sono l'evasione e i tassi ridotti (del 4% e del 10%). Ecco perché l'Ocse sollecita (e non solo l'Italia) a rivedere l'applicazione dell'Iva, allargando la platea dei prodotti soggetti attraverso una graduale riduzione dei tassi ridotti. Alcuni dei quali – soprattutto nel campo culturale e più in generale del tempo libero – avvantaggiano peraltro le fasce di popolazione a maggior reddito.

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