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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2013 alle ore 07:15.
Immaginate un tossicodipendente che dal suo pusher abituale si senta dire che non c'è più droga sul mercato. Tale è stata la reazione dei mercati finanziari alla notizia che la Fed comincerà a chiudere il rubinetto del quantitative easing (forse) già verso la fine dell'anno. In realtà Ben Bernanke non ha detto che non somministrerà altra droga, ma ha fatto capire che ridurrà le dosi, se l'economia proseguirà all'accettabile ritmo attuale. Ma un mercato, che dopo quattro anni si è assuefatto alla droga della Fed, ha reagito con la peggiore isteria: sono scese le Borse e soprattutto sono cadute le obbligazioni e i titoli di Stato con una violenza direttamente proporzionale alla rischiosità delle diverse attività e al grado di speculazione che fino a poche settimane fa le aveva spinte troppo in alto. Il prezzo del petrolio è calato di ben 4 dollari e sono cadute le materie prime e l'indice (Crb) che le misura s'è ritrovato ai livelli del settembre 2010. Si sono ulteriormente indebolite (sul dollaro) tutte le valute dei Paesi emergenti, le cui borse hanno sofferto più delle altre. Infine, strano a dirsi, è precipitato pure il prezzo dell'oro e, a 1.284 $, si ritrova anch'esso com'era nel settembre 2010, quando il primo quantitative easing della Fed stava portando su all'unisono le più disparate attività finanziarie in tutto il mondo.
E all'unisono sono dunque cadute, tra mercoledì sera e giovedì: persino l'oro che, dopo il brusco ridimensionamento di aprile, si pensava essere ritornato un bene rifugio, in contrapposizione con le attività a rischio. Simul stabunt vel simul cadent, insieme staranno e insieme cadranno, poiché il fattore che aveva fatto gonfiare tutti i mercati è stata la politica monetaria ultraespansiva e non convenzionale della banca centrale americana. E, naturalmente, è sceso anche l'euro: ma di poco, dall'1,34, dove si trovava prima delle parole di Bernanke, all'1,323 di ieri sera. Davvero e stranamente poco, perché salti, all'ingiù o più sovente all'insù, di un punto l'euro li aveva segnati sul dollaro al minimo cambiar d'umore sui mercati, alle dichiarazioni di qualche membro della Fed o a quelle a ruota libera di un politico europeo o ai tentativi di interpretare qualche frase di Mario Draghi un po' più criptica del solito.
Ci sono due diverse spiegazioni a questa resistenza dell'euro sul dollaro: la prima è che una bella fetta della speculazione sulle attività dei Paesi emergenti proveniva dalle grandi banche e dai fondi dell'Eurozona e adesso quella speculazione sta rimpatriando la liquidità. La seconda è che, nonostante, l'annunciata futura exit strategy della Fed, le condizioni della politica monetaria nella zona euro si sono fatte più restrittive: in termini relativi, rispetto a Giappone e agli stessi Stati Uniti, perché l'ostilità tedesca a qualsiasi misura non convenzionale s'è intensificata e la minaccia della corte costituzionale tedesca consiglia a Draghi ulteriore prudenza; in termini assoluti, perché con la restituzione della liquidità presa a prestito (Ltro), si sta riducendo l'attivo nel bilancio della Bce.
Che fare adesso? L'impressione è che la reazione dei mercati, per quanto isterica e violenta, sia destinata a farsi sentire anche nelle prossime sedute: forse più con movimenti talora contraddittori che con una direzione decisamente ribassista. Dovremmo, insomma, vedere una volatilità ancor più accentuata di quella delle ultime settimane e, senza sostanziali mutamenti nelle condizioni economiche, potremmo rivedere certe sconcertanti reazioni ai dati macroeconomici americani. Sconcertanti perché dettate dalla logica del tanto peggio, tanto meglio, visto che le cattive notizie avrebbero l'effetto di procrastinare l'exit strategy della Fed.
Si può supporre che i bond societari ad alto rendimento, specie i junk bond, siano incamminati verso una più lunga strada ribassista. Qualcosa d'analogo è ipotizzabile anche per i titoli di Stato dei Paesi periferici d'Eurozona, tanto più se si pensa che rendimenti in ulteriore modesto rialzo dovrebbero interessare pure i Bund e i Treasury Usa. Ed è probabile che le azioni continuino ad essere considerate attività relativamente meno rischiose: specie i titoli di aziende a più forte crescita e specie le banche che, nella prospettiva di un rialzo dei tassi d'interesse, vedrebbero migliorare i margini reddituali.
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