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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 19:11.

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«Gli uomini amano le lotte pubbliche e private per la conquista del potere mentre ogni donna sogna di essere regina», scrisse il poeta inglese Alexander Pope in epoca neoclassica. Nel caso di Elizabeth Alexandra Mary Windsor quel sogno divenne promessa di realtà molto presto, quando la futura sovrana aveva appena dieci anni. In un livido pomeriggio d'inverno del 1936 Lady Asquith chiese di essere ricevuta nella casa al 125 di Piccadilly dove la bimba viveva con la sorella Margaret e i genitori, i Duchi di York. Poche ore prima Edoardo VIII, lo zio David, re da pochi mesi, aveva abdicato per sposare Wallis Simpson, divorziata di nascita statunitense con un misterioso passato alle spalle. Lady Asquith portava una lettera ufficiale per il nuovo sovrano.

«È papà adesso?», chiese Margaret a Elizabeth. Ottenuta una risposta positiva, Margaret aggiunse una seconda domanda: «Questo significa che tu un giorno diventerai regina?». «Suppongo proprio di sì», replicò laconica la piccola Elizabeth, testimoniano i suoi biografi. La successione ebbe luogo all'inizio di febbraio del 1952, sessant'anni fa: Giorgio VI morì il 6 mentre la figlia era in Africa, il giorno seguente Elizabeth arrivò a Londra accolta all'aeroporto dal premier Winston Churchill che aveva appena detto alla radio: «Un periodo di prosperità ci attende perché la storia insegna che governati dalle nostre regine siamo sempre stati capaci di imprese straordinarie».

A dispetto del retorico ottimismo di Churchill le cose nella realtà sono andate diversamente per la Gran Bretagna, costretta in seguito a rinunciare a un impero e relegata in secondo piano sul piano politico a livello internazionale. Non ha invece mai smesso di brillare in ambito planetario la stella di Elizabeth, ormai in tutto il globo "la regina" per antonomasia, figura di insuperata (e insuperabile) forza iconica. A breve, poi, potrebbe diventare la sovrana con la più lunga permanenza sul trono dopo aver già superato la trisnonna Vittoria in termini di longevità. Il favore plebiscitario di cui gode ovunque si spiega solo in parte chiamando in causa l'estremo rigore con il quale ha interpretato e continua a interpretare il ruolo toccatole in sorte.

Elizabeth costituisce soprattutto l'incarnazione perfetta del potere regale, riveste una funzione sacrale così riassunta nel 1920 da un antropologo: «la prima forma nota di religione è l'adorazione dei re da parte del popolo». Ben poco, dunque, conta agli occhi degli inglesi ciò che il sovrano è, mentre riveste un'importanza maggiore quello che rappresenta.

Sotto questo profilo la sintesi migliore resta il celebre saggio del 1867 di Walter Bagehot, banchiere e a lungo direttore dell'Economist, dove si legge: «La caratteristica della monarchia inglese è che conserva i sentimenti con cui i re eroici governavano la loro epoca primitiva, aggiungendovi i sentimenti con cui le costituzioni guidarono la Grecia nelle epoche più raffinate. La monarchia è un tipo di governo che permette alla nazione di concentrarsi su un'unica persona

Poiché il cuore umano è forte e la ragione debole, la monarchia è salda in quanto si appella al sentimento diffuso mentre la repubblica lo è poco visto che fa appello alla comprensione razionale». Dai tempi di Bagehot molte cose sono mutate anche in un paese tradizionalista per natura come la Gran Bretagna. Tuttavia la funzione sacrale dei sovrani - e, in particolare, delle regine - è rimasta intatta. Se il loro potere reale è diminuito in misura sensibile durante gli ultimi due secoli, quello simbolico è rimasto intatto e mantengono prerogative di enorme importanza così riassumibili: salvaguardare le radici, garantire l'unità nazionale, rendere visibile l'indissolubile legame tra passato e presente.

Aveva dunque torto l'icastico repubblicano George Bernard Shaw nel sostenere: «siamo un popolo di ingenui e i Windsor mi sembrano il frutto di allucinazioni collettive». Più saggio e lucido nell'analisi si mostrò l'egiziano Farouk affermando che «nel XXI secolo resteranno solo cinque re: quelli dei mazzi di carte e l'inquilino di Buckingham Palace». Su un punto Bagehot aveva torto. Teorizzava infatti che la vita di re e regine «deve essere avvolta nel mistero». La strategia poteva rivelarsi vincente in epoca vittoriana, non certo nella frenetica modernità contemporanea sottomessa al culto dell'immagine.

Tranne l'infortunio del 1997, nelle ore successive alla tragica morte a Parigi della principessa Diana - quando resistette a lungo alle pressioni di Blair per mostrarsi addolorata in pubblico -, Elizabeth ha utilizzato sapientemente i media con rigorosa professionalità a partire dalla sontuosa cerimonia dell'incoronazione (giugno 1953, la prima trasmessa in diretta tv) e proseguendo con il film Bbc Famiglia reale che alla fine dei Sessanta mostrò ai sudditi un memorabile «dietro le quinte» del quotidiano dei Windsor. Eccellente, sull'effetto che Elizabeth da sessant'anni è in grado di suscitare, è il commento di Jeremy Paxman nel volume On Royalty: «Finché la gente potrà vedere la sua mano guantata che saluta tra le dorature della carrozza o risponde dal balcone alla folla assiepata sul Mall si sentirà rassicurata e penserà che tutto va bene per la Gran Bretagna, indipendentemente dalle condizioni reali del paese».

L'acume politico non le manca di certo. In primo luogo in virtù dell'esperienza (undici premier si sono settimanalmente consultati con lei in sessant'anni di regno), e poi grazie a una formidabile capacità istintiva di intuire l'importanza dei gesti simbolici. Bastano due esempi per testimoniarlo: la domanda, rilanciata da quotidiani e tv, rivolta ai docenti della London School of Economics all'inizio della crisi («ma perché nessuno di voi si è accorto in anticipo di cosa stava per accadere?») e la recente visita a Dublino, sconsigliata da molti, che ha di fatto permesso una riconciliazione tra l'Irlanda repubblicana e il Regno Unito. Oggi Elizabeth è adorata dai sudditi e ogni sondaggio smentisce le funeste profezie degli osservatori troppo frettolosi che nel l'estate 1997, dopo la morte di Diana, ritenevano inevitabili riforme costituzionali di ampia portata.

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