Economia

Capitalismo bipolare

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l’analisi

Capitalismo bipolare

Il primo problema è costituito dal disallineamento. Nella complessa transizione italiana, la recessione innescatasi nel 2008 ha l'effetto di un potente catalizzatore.

Nella chimica e nella fisica del nostro capitalismo manifatturiero, le tendenze di lungo periodo incubate nei primi anni 90 hanno assunto, negli ultimi sei anni, una consistenza tale da rimodulare in maniera drastica – e per certi versi sconnessa – la natura della nostra fisiologia industriale. Il risultato sistemico, come dimostrato dall’analisi sulla banca dati di Bureau Van Dijk che presentiamo in questa pagina, è quello della logica (e della realtà) del disallineamento: prima di tutto, nei confronti degli altri sistemi industriali continentali che, secondo Bureau Van Dijk, hanno mostrato in generale una maggiore solidità all’impatto – durissimo – della mutazione del virus della crisi da agente patogeno puramente finanziario (il fallimento di Lehman Brothers nel 2008) a fenomeno totalizzante in grado di propagarsi – dal 2010 in avanti – in tutti gli organismi manifatturieri. Dunque, l’economia industriale italiana ha reagito peggio al mutamento di paradigma accelerato dalla recessione: un mutamento in atto nel capitalismo globalizzato da almeno un quindicennio, se è vero – come ricorda citando l’ufficio studi di Confindustria Sergio De Nardis in un articolo di prossima pubblicazione sulla “Rivista di Politica Economica” – che la quota percentuale sulla produzione manifatturiera mondiale dei Paesi avanzati (Stati Uniti, Giappone e Ue a quindici membri) è calata dal 66% del 2000 al 54,4% del 2007, fino al 39,3% del 2013. Dal 2000 la quota della Francia è scesa dal 4% al 2,6%, quella della Germania dal 6,7% al 5,4% e quella dell’Italia dal 4,2% al 2,6%. Le cose stanno cambiando. E, in questa complessa transizione, l'Italia – come astrazione unitaria compiuta – sta faticando non poco. Il problema è, però, rappresentato anche dalla difficoltà di restituire un profilo unitario e coerente del capitalismo italiano manifatturiero. Che, anzi, dal 2008 – complice forse il fenomeno negativo della fine del paradigma della grande impresa novecentesca, una parabola che ha iniziato la sua discesa alla fine degli anni 80 - ha accentuato la sua propensione a costruire una pluralità di modelli, non sempre riconducibili a un tutto unitario. L’Italia. Anzi, le Italie. Esiste una questione di disallineamento e di decomposizione di linee guida strutturate in grado di determinare – nel bene e nel male – l’andamento del capitalismo industriale italiano. È come se esistessero oggi tanti capitalismi industriali italiani. Proprio questo disallineamento interno fra una élite e una massa che arranca costituisce uno dei fili rossi dell’inchiesta sulla svolta della manifattura che Il Sole 24 Ore ha avviato in questi giorni e che proseguirà nelle prossime settimane. A porre in luce questa dinamica è anche l’indagine dell’ufficio studi di Mediobanca sui dati cumulativi di 2.055 imprese italiane: rispetto al 2008 il fatturato complessivo è sceso del 4,3%, quello delle medie imprese è salito del 3,4 per cento. E, così, la dinamica del disallineamento, che nella fictio dei sistemi industriali nazionali e nella brutalità sintetica dei dati statistici complessivi appare ampliare il solco fra “noi” e “gli altri”, si sta replicando anche all’interno del nostro tessuto produttivo. Da un lato c’è una minoranza composta dalle medie imprese del Quarto Capitalismo, teorizzato appunto dall’ufficio studi di Mediobanca fondato da Fulvio Coltorti e diretto ora da Gabriele Barbaresco, e dalle aziende export oriented che vengono monitorate dalla Fondazione Edison di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis e dagli economisti di antica formazione becattiniana; dall’altro lato c’è la stragrande maggioranza delle aziende, manzonianamente definibili come l’ “oscuro volgo che nome non ha”, schiacciate dall’afasia del mercato interno e dalla residualità tecnologica, prive di marchi riconoscibili e avulse dalle catene internazionali del valore che oggi costituiscono la vera infrastruttura materiale e immateriale, tecno-industriale e finanziaria del capitalismo globalizzato. Per ora le cose funzionano. L’importante è che questa dimensione bipolare – nella sua vitale ambiguità, vagamente dadaista – non evolva in qualcosa di costitutivamente schizofrenico.

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