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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 08:34.

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Scrive lo storico Götz Aly in Perché i tedeschi, perché gli ebrei?, che Theodor Fritsch (1852- 1933) fu un antesignano delle «città-giardino», del l'urbanistica contemporanea. Un intellettuale che mirava a far sì che la terra patria non restasse «alla mercé dell'imprudenza e della brama di profitto, ma divenisse il terreno di una felice esistenza umana».
Fritsch, tuttavia, è anche un ideologo cui si deve una parte consistente dell'universo culturale e lessicale del nazismo. Nel suo linguaggio la parola razza ricorre frequentemente e la Germania è descritta come un Paese «invaso» dagli stranieri e dai «barbari asiatici». Ma la matrice dell'antisemitismo, insiste Aly, è il sentimento, non il linguaggio. La propaganda nazista ha successo perché lavora su un sentimento profondo, di «lunga durata».
«Una crisi – scrive Aly – non si spiega con la crisi, una guerra non si giustifica con la guerra. Lo stesso vale per l'Olocausto. Chi si limita a dire che l'antisemitismo tedesco esasperato fino al genocidio di sei milioni di persone è una conseguenza dell'antisemitismo evoca un demone passando sotto silenzio le forze che lo fecero nascere e diventare potentissimo» p. 219.
È la conclusione che propone Aly e il principio su cui si costruisce questo suo libro: i sentimenti, più che le grandi matrici culturali definiscono l'identità dei tedeschi tra l'inizio dell'Ottocento e il compiersi della Germania nazista. In questi sentimenti l'antisemitismo occupa un posto di rilievo. La genealogia dell'antisemitismo sta nella definizione di una sensibilità più che nell'azione culturale di alcune grandi figure intellettuali. Il nazismo, perciò, non avrebbe prevalentemente origini culturali, ma sociali e il suo discorso avrebbe un connotato a suo modo «egualitario».
Il programma del partito nazista – scrive Aly – «affondava le sue radici in due impostazioni del principio egualitario sviluppate durante il XIX secolo, dai connotati rivoluzionari e non difficili da combinare con l'antisemitismo. Da un lato il partito si ispirava all'idea politica della nazione etnicamente omogenea, dall'altro prometteva agli strati inferiori di una nazione così definita maggiore eguaglianza sociale, riconoscimento del valore manuale e, soprattutto, opportunità di promozione e carriera» p. 126.
Non erano elementi casuali. Al fondo il problema era il rifiuto di quel processo di emancipazione politica e sociale, avviata con l'invasione napoleonica che aveva permesso l'emancipazione del mondo ebraico, riscritto le gerarchie del successo, sconvolto l'ordine gerarchico della «Germania tradizionale». Un Paese i cui strati sociali intermedi erano stati travolti dalla novità e i cui primi segni di rifiuto stanno già nei movimenti giovanili alla fine degli Anni 10 dell'Ottocento (un quadro culturale che già Hannah Arendt aveva messo a fuoco nel suo Rahel Varnhagen, il Saggiatore) e si rafforzano nel culto del popolo che attraversa in maniera ambigua le giornate del 1848, quando quel sentimento tornerà a farsi sentire dietro l'orgoglio di rifondare la grande nazione.

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