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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2013 alle ore 08:59.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2013 alle ore 11:00.

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Quinta di una serie Le precedenti puntate sono state pubblicate il 26 marzo (Russia), 28 marzo (Cina), 29 marzo (India) e 3 aprile (Brasile)
«È un peccato che ci siano ancora così poche imprese italiane in questo mercato. L'Indonesia è un'opportunità enorme per il made in Italy, un Paese ancora poco presidiato dai player internazionali, con un sistema distributivo capillare, molti giovani, una classe media in ascesa e un interesse crescente per i prodotti più sofisticati».

Non ha dubbi Luca Parodi, responsabile Asia della Perfetti Van Melle, sulle potenzialità di business multisettoriale offerte dal quarto più popoloso Paese al mondo. Quasi 250 milioni di abitanti, per il 61% sotto i 35 anni, tra cui una settantina di milioni sono utilizzatori abituali di social network, bassa disoccupazione (6,7%) e una middle class (sopra i 10mila dollari di reddito disponibile) raddoppiata dal 2006 al 2011 e la previsione di 90 milioni di nuovi consumatori benestanti, rispetto agli attuali 45, da qui al 2030 (McKinsey Global Institute). Di pari passo a un trend del Pil che anche quest'anno dovrebbe crescere sopra il 6%, trainato da consumi interni che oggi marciano a un ritmo doppio e caratterizzato da una scarsa dipendenza dall'export.
Un arcipelago che il gruppo milanese Perfetti presidia da vent'anni – leader assoluto tra gli stranieri nello sugar confectionery – con due fabbriche a Bogor e Purwakarta che generano un fatturato di 500 milioni l'anno e danno lavoro a 2mila addetti. «È un mercato molto orientato al prezzo – continua Parodi – e con un trade assai frammentato: i 2 milioni di punti vendita al dettaglio, l'equivalente delle superette italiane, valgono l'85% dei nostri ricavi e i 20mila tra mall e supermercati il restante 15 per cento».

Creare un sistema distributivo efficiente in una nazione di 17mila isole con infrastrutture carenti è dunque complicato e il ruolo del grossista non solo è fondamentale, ma è anche il problema numero uno da affrontare per chi vuole penetrare nel mercato asiatico, alla luce dell'alto tasso di corruzione e di un sistema di giustizia che non ha nulla da invidiare a quello nostrano. D'altro canto il lavoro del marketing è spianato dalla diffusione del web e dall'alto tasso di istruzione degli indonesiani, nonché da un indice delle vendite al dettaglio salito del 16% a dicembre 2012 e previsto in ulteriore aumento nella prima metà di quest'anno (dati Bank Indonesia su un panel di 600 retailers). Da qui al 2020 si stima che la spesa per consumi familiari salirà del 40% in termini reali.
Si spiega perciò l'attenzione che anche il sistema istituzionale italiano sta dedicando a quella che è considerata la new entry dei Briics, la futura settima potenza mondiale, tanto da organizzare la prima "missione di sistema" del 2013 firmata dalla Cabina di regia per l'internazionalizzazione (ministeri, Ice, Confindustria, Unioncamere, Abi, Rete imprese e cooperative) proprio a Giakarta, dal 6 all'8 maggio prossimo. E l'Indonesia – dove l'export italiano è salito del 56% l'anno scorso a 1,23 miliardi – è stata anche la prima tappa del progetto "L'internazionalizzazione a portata di click", con il webinar (web seminar) svoltosi la settimana scorsa a Bologna, che ha messo in contatto sulla piattaforma online 130 aziende di tutta Italia con buyers, importatori e associazioni di categoria indonesiane.

«L'Indonesia è una piazza ideale per agroindustria, automotive, componentistica meccanica, costruzioni, energia tutti settori in cui l'Emilia-Romagna, e l'Italia in generale, brillano. Mercati di quelle dimensioni richiedono non solo qualità ma anche quantità: bisogna quindi garantire un'offerta sistemica, non forniture a singhiozzo», premette Ugo Girardi, segretario generale dell'Unioncamere emiliano-romagnola, che ha organizzato assieme al ministero degli Esteri il webinar a Giakarta, cui seguiranno i seminari 2.0 con la Corea del Sud a maggio, il Sud Africa a luglio, le Filippine a ottobre e l'Angola a novembre.
Sono meno di 40, a oggi, le imprese italiane presenti nella multietnica repubblica asiatica, ma meno della metà sono filiali e sedi produttive. Non solo colossi quali Agip, Eni, Iveco, Telecom, hanno messo là radici, ma anche Pmi familiari come la modenese Piacentini Costruzioni, 58 milioni di fatturato, 105 addetti in Italia, 300 in giro per il mondo di cui un centinaio nell'arcipelago asiatico. «È un mercato super promettente, lavoratori seri con una capacità di coesistere a prescindere da etnie e religioni che non ha pari, ma non hanno lo sprint italiano», commenta Dino Piacentini, seconda generazione alla guida della Spa specializzata in opere marittime, arrivata tre anni fa in Indonesia al seguito di Saipem per il suo nuovo yard a Tanjung Balai (porta verso Singapore e il Far East) e ora autonoma in diversi cantieri a Java. Parteciperà alla costruzione della prima metropolitana della capitale il big bolognese Officine Maccaferri, che presidia il mercato dal 1989.

«Ma il business non è mai esploso, l'Indonesia è un'eterna promessa, costantemente rinviata da inefficienze politiche e corruzione, vent'anni indietro rispetto a Malesia o Thailandia, ma dove non si può non investire perché la promessa è viva», spiega Luigi Penzo, ceo del gruppo che ha posto le basi della holding industriale Maccaferri e leader nelle soluzioni avanzate per il controllo dell'erosione. Il brand Italia è molto apprezzato, non solo nella moda o nell'alimentare «ma anche nella meccanica, per la nostra offerta flessibile e su misura, e per la stabilità delle relazioni. È piuttosto semplice avviare una società locale, crescere del 10% l'anno, più impegnativo è costruire un rapporto di fiducia con il cliente, fattore fondamentale», spiega Angelos Papadimitriou, ceo del gruppo emiliano Coesia, leader mondiale nel packaging, centinaia di macchine installate in Indonesia in 30 anni, dal 2002 presente con una filiale locale (75 addetti, 80 milioni di euro).

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