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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2012 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 05 agosto 2012 alle ore 15:18.

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È ora evidente che, dopo la presa di posizione della Bce in difesa dell'euro e per il sostegno dei titoli del debito pubblico dei Paesi che ne richiedano un intervento, la storia d'Europa sta precipitosamente cambiando.
Una vera ambigua battaglia si è scatenata fra la troika (composta dalla Bce, l'Fmi e le istituzioni europee dominate dall'ideologia cultural-politica tedesca, che impone punizioni e austerità agli Stati peccatori) e l'amica/nemica della troika, la grande speculazione finanziaria la quale, come s'è visto nei giorni scorsi, toglie ogni credibilità al dio mercato, in un'altalena di perdite e guadagni razionalmente ingiustificata.
Che una decisa politica anti-spread rivendicata dalla Bce possa in qualche misura osteggiare la speculazione è conseguenza indiscutibile, ancorché in difetto di un'Europa politicamente unita e democratica il prezzo che si fa pagare ad alcuni Stati membri è altissimo. Oltre alle misure di politica economica e sociale, rovinose e depressive, e già imposte, dal fiscal compact alla spending review, altre ne saranno intimate agli Stati che chiederanno l'aiuto contro lo spread per mantenere il pareggio di bilancio. Tra quelli che, per molti versi non parevano ancora, fino a non molto tempo fa, destinati al fallimento, v'è ora la Spagna e poi probabilmente, nonostante le sovente contraddittorie, ma sempre ostentate dichiarazioni, l'Italia.

Si sta così ripetendo un fenomeno che Montesquieu, commentando le leggi feudali dell'Europa medievale, le considerava un avvenimento accaduto una volta sola nel mondo e «che forse non accadrà mai più». Ebbene, Montesquieu si sbagliava. Infatti, allora come oggi, insieme alla brutalità del comando, è determinante il dominio dell'economia sulla vita pubblica e sui diritti e soprattutto la confusione fra la ricchezza e l'autorità. Allora si trattava della ricchezza terriera, oggi della ricchezza finanziaria.
Come allora, il presupposto si giustifica con lo "Stato di eccezione", teorizzato da Karl Schmitt, che comporta la rigida soggezione economica della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o burocrati, poco importa.
Quella attuale è la nuova forma di feudalesimo, che sottrae la sovranità agli Stati e alle sue istituzioni: si potrà forse dire non schiave, ma ridotte spesso, con ingiustificata presunzione, a semplici esecutori di politiche economiche, monetarie e sociali, imposte non certo democraticamente dal di fuori.

Il trasferimento della sovranità dello Stato democratico al Leviatano tecnocratico della troika, passaggio invero che sembra obbligato per arrivare all'unica possibile soluzione di un'Europa politicamente unita e democratica, comporta quindi una revisione totale dei diritti dei cittadini e delle istituzioni democratiche, assopite nelle loro funzioni e dedite ormai solo all'esecuzione delle decisioni di gerarchie esterne e fuorvianti.
È così che i problemi del rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale, insieme con i mali peggiori delle disuguaglianze, tra le quali domina la disoccupazione, diventano trascurabili e importano solo un vago richiamo a parole che han perso il loro significato, sicché secondo il pensiero del grande poeta W. Auden: «When words lose their meaning, physical force takes over». E qui la forza è quella del feudalesimo della troika, poiché ciò che conta è solo l'imposizione dell'austerità, sempre più regina della depressione economica.

Pare allora persino inutile, come già ricordai altra volta avevano fatto Benedetto Croce e Luigi Einaudi, scagliarsi ai tempi delle crisi contro i governi tecnici, poiché, come appare evidente, l'insieme dei partiti politici, per quel che riguarda non solo noi, ma anche altri Paesi, sono in devastante disgregazione programmatica e sempre più portati a vaniloquio politico, alimentato da conflitti interni di modesta levatura. Tecnici e politici di professione son del tutto eguali. Questa inquietante crisi della democrazia politica, alla quale il degrado culturale della nostra classe dirigente non ha opposto alcuna resistenza, mette sempre più in pericolo sia la democrazia, sia la giustizia sociale. Il fenomeno non pare affatto destinato a processi di inversione, che solo una politica di unificazione europea potrebbe modificare, o un radicale rinnovamento di fronte alle prossime scadenze elettorali del personale politico. Per il momento, tuttavia, ancora una volta, la descrizione più appropriata della nostra stagione politica ci viene dai noti versi di Giuseppe Ungaretti: «Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie», al quale può fare oggi giusta eco Vincenzo Cardarelli: «Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d'agosto».

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