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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:04.
L'ultima modifica è del 22 marzo 2014 alle ore 11:29.

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Non puoi essere serio, se parli di turismo. È un'attività residuale, arriva quando il tempo del lavoro finisce. Almeno così nello schema antico della distinzione tra dovere e piacere, separati e successivi. E diventa residuale anche la disciplina che se ne occupa.
Ma è davvero così? No, perché il contenuto emotivo del consumo di vacanze è crescente.

L'investimento personale nel viaggio è uno dei fatti della società del nostro tempo: non siamo all'educazione sentimentale di Stendhal e di Goethe, quando non si poteva dire di essere adulti senza aver vissuto in almeno un paio di Paesi, a cominciare dall'Italia; ma siamo molto vicini a un altro tipo di educazione sentimentale, centrata non sulla conoscenza dei luoghi (che oramai ci sono mediaticamente noti) ma sulle relazioni interpersonali. Il viaggio conta sempre più nella psiche individuale e collettiva. E il peso economico del tempo libero, dell'entertainment e dei viaggi, è enorme. È il segmento dei consumi cresciuto di più in questi anni. Mentre nel passato il tempo libero produceva "ozio" e perciò pochi consumi e un fatturato limitato, oggi siamo nel bel mezzo dell'economia del leisure: si spende più per intrattenersi che per alimentarsi. È, insomma, un settore industriale di primissim'ordine. Ma non puoi essere serio.
Il nostro è uno strano Paese, e ci piace crogiolarci nei ghirigori della retorica, senza chiamare le cose con il loro nome. Siamo pieni, per esempio, di corsi di laurea in turismo. Ma nessuna università americana ha corsi di laurea in turismo. Anzi la parola stessa "tourism" non ha nessun riferimento accademico. Lì si parla e si insegna l'industria dell'ospitalità (Hospitality Industry) non il turismo, che è un fenomeno sociale generico. Esiste l'industria alberghiera, invece; l'industria dei viaggi, invece; l'industria dei parchi di divertimento, invece. Ma non esiste il turismo come settore dell'economia. Non si tratta solo di una questione lessicale, perché falsando le parole falsiamo la realtà. Se si parla di turismo e non di industria dei viaggi e alberghiera, per esempio, ci si nasconde la metà del mercato fatta di viaggi di lavoro.

Purtroppo il turismo è immobilizzato dai luoghi comuni. Idee, proposte, piani strategici si succedono da anni sempre uguali. Una noia inesorabile colpisce la lettura di qualunque piano promozionale: gli stessi dati di riferimento, le stesse parole e le stesse metafore, prime fra tutte quelle petrolifere, il nostro «oro nero», i nostri «giacimenti», e via desertificando. E poi, non appena il discorso prende qualche termine di carattere imprenditoriale, arriva il vade retro, con l'anatema di voler trasformare qualunque cosa in una Disney. E questo è piuttosto inspiegabile. Perché la Disney è una delle migliori aziende al mondo. I vari parchi Disney ospitano 130 milioni di visitatori all'anno e Orlando in Florida ha più visitatori di Roma; in Europa, Disneyland Paris da solo vale circa il 20 per cento di tutto il movimento turistico di Parigi. La Disney ha inventato la scienza del queuing, l'arte di gestire le code, con la capacità di minimizzare l'attesa. C'è nella sua visione una sottigliezza psicologica che permette il massimo di libertà e il massimo di organizzazione.
Nessuno al mondo sa gestire milioni di persone meglio della Disney. Però fare come la Disney non può essere serio. Anzi, l'intellighenzia disprezza Rimini, la cosa italiana più vicina, per cultura e atteggiamento, al mondo Disney. Dedicherebbero monumenti e mostre a Fellini, ma a Rimini mai in vacanza, come se non ci fosse un legame profondo tra il regista e la sua città. Ma niente paura, la gente sa scegliere, e Rimini è premiata, perché insieme ai quattro comuni limitrofi segna 40 milioni di presenze annue e ha più alberghi di Roma. Si vede che il mercato ha idee diverse. Lontane anche dall'iniziativa di qualche anno fa dell'Ente nazionale del Turismo: il grande lancio delle isole minori (Ustica, Ventotene, Tremiti). Idea stupenda, perché sono meravigliose. Purtroppo in molte di esse non ci sono alberghi. Allora a che serve quella promozione? Siamo nella retorica della bellezza, che nega però il suo utilizzo economico. Ancora: siamo innamorati dei low cost e offriamo abbondanti soldi pubblici a queste compagnie perché «portano i turisti». Peccato però che, per esempio, da Bologna ci siano nove collegamenti di Ryanair con la Spagna (Ibiza, Lanzarote, Malaga, Tenerife...), che sembrano più destinazioni per gli italiani che bacini di domanda verso l'Italia. Con i soldi pubblici promuoviamo il turismo spagnolo. Niente male.

Il nostro patrimonio culturale è primo al mondo, ma l'esperienza di visita a un museo italiano è un tuffo nel passato; non delle opere, ma dell'organizzazione. Sociometrica ha appena pubblicato i risultati dell'analisi semantica di 218mila commenti in lingua inglese postati sui social media da utenti che hanno viaggiato in Italia nel 2013. Ebbene, i termini negativi che più spesso vengono associati ai musei sono "crowded" (affollati), "wait" (attesa), "expensive" (costosi); alcuni, come i Musei vaticani, sono stati a volte addirittura giudicati «impossibili da visitare». Se la qualità delle opere è altissima, l'esperienza sul campo è bocciata.
La lista delle contraddizioni italiane è lunga. Spendiamo un sacco di soldi per farci conoscere in Cina, ma nessun sito di promozione turistica ha una pagina in cinese. Siamo inondati dalle rievocazioni storiche e letterarie delle nostre città, ma per prenotare un albergo bisogna rivolgersi ai grandi player mondiali (booking.com, expedia.it...), che assorbono dal 25 per cento in su di commissione su ogni acquisto, e così facendo trasferiscono un quarto del fatturato alberghiero italiano all'estero. Il mondo turistico funziona per singole destinazioni, ma siccome in Italia la competenza è regionale, automaticamente abbiamo spostato il baricentro su quella dimensione, sconosciuta dal mercato.

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