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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2012 alle ore 08:01.

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Il ritorno dello spread ai valori del 15-16 novembre scorso, quando si insediò il Governo Monti, è un evento anche simbolico che non va sottovalutato. Indica la gravità della situazione in cui ci ritroviamo. E impone al Paese, e alla sua politica prima di tutto, un'unità di intenti come davanti a una minaccia bellica.

Sarebbe un errore, però, pensare che questi mesi siano trascorsi invano. Al di là dei valori dello spread, infatti, quasi nulla è come otto mesi fa. Molto è cambiato, molto è stato realizzato. L'Italia, soprattutto, è stata capace di un cambio di passo. I compiti a casa sono stati fatti. Tanti interventi potevano essere fatti meglio. Ma innalzamento dell'età pensionabile, liberalizzazioni, semplificazioni, riforma del lavoro, spending review, decreto sviluppo sono un elenco di misure che non ha riscontri nella storia recente del Paese.
Ne va dato merito al governo Monti e, anche, alla non-maggioranza che, pur tra mille ambiguità, ne ha permesso l'approvazione in Parlamento.
Non è un caso se da parte delle istituzioni internazionali, dal Fondo monetario, dall'Ocse non giungano più quelle liste più o meno incalzanti di cose da fare, che nell'agosto scorso si erano tradotte addirittura nella irrituale lettera della Bce. Nessuno può più darci degli irresponsabili, nessuno può più mettere in discussione la serietà dello sforzo italiano, la responsabilità di tutti gli italiani che in questi mesi si sono fatti carico dei sacrifici del risanamento senza violenze o moti di piazza.

L'Italia, otto mesi dopo, non è più sul banco degli imputati per le sue politiche. Non è il buco nero d'Europa che rischia di trascinare giù l'eurozona: è piuttosto lei, l'Italia, ad essere spinta verso il baratro da un'Europa che non c'è e che non fa i propri compiti. Lo testimonia lo scambio di ruoli con la Spagna. Nell'autunno scorso la maglia nera dell'Unione era italiana (la Grecia da tempo fa corsa a sé), oggi sono gli iberici. In quei giorni di novembre se lo spread del BTp decennale italiano era a 534 con un rendimento a 7,08%, quello dei bonos spagnoli era a 458 con un tasso del 6,35; oggi le posizioni si sono invertite, con la Spagna che fa registrare uno spread a 640 e rendimenti addirittura al 7,64 e l'Italia con spread a 537 e rendimenti del 6,60%.

Al di là dei numeri, questi valori indicano come non sia stata l'Italia ad aver innescato l'ultima ondata di sfiducia verso l'euro. Magari è stata la Spagna, ma soprattutto è stata un'Europa che non riesce a dare messaggi chiari e distinti ai mercati. Le incertezze sullo scudo anti-spread che hanno fatto seguito al vertice europeo di fine giugno, le continue frenate da parte tedesca, le mezze frasi sul default della Grecia, le ambiguità, i tempi lunghi sono stati letti come un punto di non ritorno. Come il segnale della mancanza di una reale volontà di salvare l'euro e il perimetro dell'eurozona.
Davanti a questo, evidentemente, l'Italia non ha più armi da poter impugnare. C'è ancora tantissimo da dover fare per rendere l'ambiente economico italiano in grado di competere e di crescere. Ma chi immagina che nuove manovre o nuove strabilianti marchingegni anti-debito possano tirarci fuori dai guai non ha compreso quello che sta accadendo.

In questo senso è anche peggio di otto mesi fa. Allora c'erano tante riforme e tanti sforzi da dover compiere. Oggi neppure quello. Non possiamo più contare solo su noi stessi, dobbiamo sperare in un estremo atto di responsabilità da parte di altri. In fondo il fallimento dell'eurozona, lo sa bene il ministro Schäuble, sarebbe un danno grave anche per la Germania. Perciò è venuto il momento di un segnale forte da parte di Berlino.
Non piccole aperture, mezze rassicurazioni, piccoli passi incerti nei tempi e negli esiti. E neppure grandi impegni di europeismo a lunga scadenza. La situazione di oggi impone decisioni forti e tempi rapidi. E queste decisioni non possono che essere il via libera della Bce, con il sì in Consiglio anche del rappresentante della Bundesbank, a un intervento che ripristini una situazione dei tassi in Europa tale da permettere l'efficacia della politica monetaria e scongiurare il rischio di deflazione. È il suo statuto a imporlo. Se Francoforte non lo farà, sarà solo per ragioni politiche. Non certo per la tutela della sua indipendenza. E ancora una volta il tempo, e i mercati, non aspetteranno.

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