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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 13:42.
L'ultima modifica è del 29 luglio 2014 alle ore 22:32.

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Un euro e cinquanta centesimi di sconto possono costare cari, molto cari. Non tanto per il mancato incasso, quanto per le conseguenze fiscali che rischia di determinare. Sembra paradossale che in Italia l'evasione arrivi in base alle stime a 150-180 miliardi di euro all'anno (un dato ufficiale non è mai stato fornito nonostante rappresenti una piaga per il nostro Paese) eppure il Fisco si concentri su violazioni per piccoli o piccolissimi importi. È quanto accaduto a un ristorante nel milanese che si è visto comminare la sanzione della sospensione dell'attività per quattro violazioni consecutive avvenute tra il 5 e il 17 luglio di due anni fa. La Guardia di Finanza ha contestato in unico verbale che il ristorante avrebbe emesso le ricevute fiscali e successivamente avrebbe praticato uno sconto rispetto a quanto indicato in ricevuta: complessivamente l'incongruenza ammontava a 1,50 euro e lo spread tra quanto certificato in tre ricevute fiscali e quanto pagato dai clienti risultava dagli incassi registrati tramite il Pos, ossia con transazioni tracciabili attraverso bancomat e carte di credito. In pratica, l'esercizio avrebbe praticato uno sconto di 50 centesimi per ognuna delle tre fatture «incriminate».

La vicenda, che si è trascinata in contenzioso nei Tribunali del Fisco (quelli che in gergo tecnico si chiamano Commissioni tributarie), ha portato a un atto di contestazione di sanzioni di 2.064 euro. Ma quando il Fisco ravvisa più irregolarità nell'emissione di scontrini o ricevute a stretto giro scatta anche la sanzione aggiuntiva della sospensione dell'attività. E le "serrande" dell'attività sono rimaste chiuse, infatti, per tre giorni dal 9 all'11 aprile 2013.

Mentre sulle sanzioni pecuniarie la contribuente ha scelto la strada della «definizione» (cioé ha pagato) per evitare una controversia lunga e costosa, sul provvedimento di chiusura ha deciso di rivolgersi ai giudici tributari. In primo grado, la Commissione tributaria ha riconosciuto che la sospensione dell'attività era già avvenuta e quindi non c'era più interesse all'annullamento del provvedimento del Fisco. Non è andata così nel ricorso in appello. La sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rilevato come le tre ricevute fiscali «indicavano, ciascuna, un corrispettivo superiore di 50 centesimi a quello incassato con il Pos e quindi alcuna evasione fiscale era stata posta in essere». Del resto, il ristorante aveva fatto notare di non aver arrecato alcun danno all'Erario visto che poi aveva pagato le imposte sulle somme indicate in ricevuta e non su quanto incassato (inferiore appunto di un euro e cinquanta centesimi).

I giudici: sanzione «spropositata, afflittiva e vessatoria»
«La circostanza che la contribuente abbia aderito bonariamente alla definizione pecuniaria - continua ancora la sentenza - non può far nascere alcuna presunzione di riconoscimento della costante irregolarità, dato che l'instaurazione di un contenzioso tributario avrebbe ragionevolmente comportato ben più onerosi costi professionali per poter esercitare il diritto di difesa».

Ragioni che hanno indotto i giudici ad annullare il provvedimento di sospensione dell'attività, però già avvenuto. Ecco perché la pronuncia sottolinea che «la sanzione accessoria, irrogata con la quadruplicazione dell'unico Pvc, appare spropositata, afflittiva e vessatoria rispetto all'affermata presunta irregolarità di mancato incasso per complessivi 1,50 euro».

E la Commissione tributaria va oltre e indica anche la strada per ottenere un riconoscimento del pregiudizio subito: «Appare sussistente l'eccepito patito danno economico e di immagine lamentato dalla contribuente che può essere rivendicato nella competente sede civile».

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