Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2014 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:58.

My24

A ben vedere, la confusione intorno alla riforma del Senato produce anche singolari contraddizioni. Perché in attesa che l'assemblea di Palazzo Madama sia trasformata nelle sue funzioni e il bicameralismo sepolto, proprio al Senato si guarda per cancellare l'emendamento sulla responsabilità civile approvato l'altro giorno alla Camera grazie a una frangia di deputati Pd in dissenso.
Come dire che il bicameralismo in questo caso è utile; ed è anzi invocato dallo stesso presidente del Consiglio per correggere l'errore, chiamiamolo così, di Montecitorio. S'intende che questo argomento non vale per difendere un assetto costituzionale in via di superamento.

Tuttavia resta la domanda: cosa accadrà nel regime monocamerale quando un emendamento o una legge sfuggirà all'attenzione del governo? Non ci sarà modo di rimediare e dunque il controllo sui gruppi della maggioranza dovrà essere ancora più ferreo.
Si vedrà. Al momento i problemi sono altri. Dal caso Mineo (e prima di lui Mauro) è derivata una questione politica che investe i 14 senatori da ieri ufficialmente dissidenti e in contrasto con il metodo Renzi. In sostanza, per un senatore escluso dalla commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama a seguito di una brusca direttiva del premier, si arriva a un gruppetto di parlamentari che sono usciti allo scoperto e sfidano Renzi in nome dell'articolo 67 della Carta, quello che garantisce «libertà di mandato» al rappresentante del popolo.

Molti non sono d'accordo con questa interpretazione e ritengono che la disciplina di partito debba essere rispettata, visto che sulla riforma del Senato il Pd è impegnato in via prioritaria. La «libertà di mandato» ha i suoi limiti e non può essere sfruttata da un parlamentare per accreditare un "fronte" contrario agli interessi o alla volontà del suo partito.
Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo.

Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico. Magari un errore dettato da eccessiva fretta. O da eccessivo disprezzo verso tutti coloro che si mettono di traverso rispetto all'uomo del 40,8 per cento. Quando invece proprio il grande successo elettorale dovrebbe consigliare al presidente del Consiglio di cercare qualche mediazione e di appianare i contrasti, anziché esacerbarli.

Può darsi che la fretta sia a sua volta figlia di una debolezza politica. È opinione diffusa, infatti, che il progetto di riforma debba ancora essere precisato e messo a punto. Allo stato delle cose, le ombre prevalgono di gran lunga sulle luci e questo impone una trattativa più o meno sotterranea. L'interlocutore di Renzi non è però da ricercare all'interno della maggioranza e tanto meno nel Pd, bensì all'esterno: è il leghista Calderoli, figura che si è sempre distinta per pragmatismo e capacità istituzionale.
Vedremo. Anche se è chiaro che il negoziato con Lega e naturalmente Forza Italia apre ulteriori incognite. Sta di fatto che la trasformazione di Palazzo Madama dovrà andare di pari passo con la nuova legge elettorale. E l'ipotesi del cosiddetto Italicum si avvia a essere profondamente rivista.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi