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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2012 alle ore 07:55.
L'ultima modifica è del 01 febbraio 2012 alle ore 06:41.

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Una sera di fine dicembre 1922 arrivò alla Westbanhof di Vienna un distinto signore di mezza età. Proveniva da Rotterdam, città della quale era stato sindaco senza farsi particolarmente amare. Si chiamava Alfred Zimmermann. Non fu accolto con la fanfara benché venisse a ricoprire nientemeno che l'incarico di controllore- plenipotenziario del bilancio pubblico austriaco.

Rimase nella capitale fino al 1926, mandando rapporti mensili alla Società delle Nazioni (l'Onu di allora) circa i progressi delle finanze austriache lungo il percorso imposto dai creditori. Il potere di Zimmermann era enorme: se avesse costatato scarso rigore, avrebbe potuto sospendere i crediti di favore concessi all'Austria.
Smembrato l'impero, grande area di libero scambio, appesantita da una burocrazia non più necessaria, l'Austria era precipitata nell'iperinflazione e nell'insolvenza. Per uscirne, il governo guidato da Monsignor Seipel aveva firmato con la Lega delle Nazioni un protocollo che prevedeva la concessione all'Austria di crediti di favore sufficienti a superare la fase critica.

Questi erano sottoposti a tre condizioni: la rinuncia a ogni progetto di unione con la Germania, la creazione di una banca centrale indipendente e l'accettazione di una tutela straniera sulla finanza pubblica. Di qui l'arrivo dell'arcigno Zimmermann, descritto come "crociato antisocialista" e, forse per questo, accetto al reverendo cancelliere. Inadatto al compito di mediatore politico, l'ex sindaco di Rotterdam svolse sbrigativamente la propria missione applicando alla lettera l'ortodossia finanziaria sancita dalla comunità internazionale. Quando se ne andò, l'Austria aveva ripagato il debito estero, il bilancio pubblico era in equilibrio e il cambio stabile. Il costo sociale fu, naturalmente, elevato ma, soprattutto, restò nelle élite austriache la cicatrice di una sottomissione accettata per forza maggiore.

Anche la Germania, trattata dai vincitori più rudemente del Paese danubiano, fu sottoposta a tutele esterne. Un commissario residente a Berlino fu incaricato del trasferimento all'estero delle riparazioni di guerra. Cosa inaudita, fu imposto nel 1924 alla banca centrale (Reichsbank) un consiglio generale composto per la metà da membri stranieri. Pochi anni dopo si capì quale risentimento profondo queste misure avessero diffuso nell'opinione pubblica tedesca.
Forse Angela Merkel farebbe bene a ripassare un po' di storia. Alla persistente sottovalutazione della "lezione" del 1931, quando l'intransigente miopia della Francia obbligò la Germania a una disastrosa deflazione, si aggiunge l'amnesia sulle umiliazioni subite da austriaci e tedeschi negli anni 20. Per fortuna, la maldestra proposta di un nuovo Zimmermann per la Grecia ha suscitato una generale levata di scudi al vertice di Bruxelles, tanto da fare pensare che oltre a un ripasso di storia non farebbe male al Cancelliere qualche ripetizione di relazioni internazionali.

È comprensibile, e condivisibile, l'insistenza di Merkel, appoggiata dalla maggioranza dell'opinione pubblica tedesca, sulla necessità e l'opportunità di evitare l'azzardo morale e di ottenere precise garanzie da parte di qualunque Paese richieda il sostegno dei partner europei. Ma, proprio mentre incassa un importante successo sulla via di un trattato che leghi tutti nella disciplina fiscale, la Germania deve essere capace di assecondare lo sforzo dei Paesi più deboli mostrando tutta la necessaria attenzione ai problemi politici e sociali che non mancheranno di sorgere. Il ministro delle Finanze greco Venizelos lamenta che si voglia forzare il suo Paese a scegliere tra "assistenza finanziaria" e "dignità nazionale".

È forte, in queste parole, l'eco di quelle assai simili pronunciate nei parlamenti e scritte sui giornali austriaci e tedeschi negli anni venti. È un'eco che potrebbe fare temere circa la tenuta dell'Unione Europea. Non è certo facile tenere insieme le esigenze (e la cultura) di un'Europa settentrionale, che è riuscita a superare piuttosto bene la crisi, con quelle di un'Europa mediterranea sempre più affaticata ma è proprio questa la responsabilità di chi ha oggi la leadership del continente, leadership che mancò negli anni 20 e che sarebbe tragico mancasse di nuovo.

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