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Le offerte cinesi a Bruxelles

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ALLA VIGILIA DEL VERTICE UE-CINA

Le offerte cinesi a Bruxelles

La Cina affronta il Forum bilaterale (e il Business Forum organizzato, a latere, dalla Confindustria europea) che apre oggi i battenti a Bruxelles consapevole della propria forza economica, di certo meno fiammante di qualche anno fa, però esaltata dalla visibile fragilità politica dell’Unione europea. L’Europa, d’altro canto, nel bene o nel male, rischia di ricompattarsi di fronte alle lusinghe del gigante asiatico: il riconoscimento come interlocutore privilegiato da parte di Pechino anche rispetto agli Usa non deve essere fuorviante, c’è chi chiama in causa Omero e il timore dei Greci anche se portan doni.

È così? Nel negoziato strisciante che caratterizza questo rapporto Bruxelles-Pechino andata e ritorno le diplomazie cinesi mettono sul tavolo tutto ciò che serve loro per aumentare la sfera di influenza globale, mentre l’Europa non fa mistero di voler approfittare del Go global cinese: servono soldi freschi per far ripartire l’Unione e salvarla dalla stagnazione e dalla disgregazione politica. Sin dalla prima formulazione il piano Juncker da oltre 350 miliardi di euro per le infrastrutture in Europa guardava già all’Asia, in particolare alla Cina che, a sua volta, ha cominciato ad accelerare la costituzione dell’Asian infrastructure investment bank, lanciata a partire dalla fine del 2013. «Il timing su questo doppio binario è alquanto evidente», dice Nicola Casarini, responsabile per lo Iai dell’area asiatica, a Pechino in rappresentanza dell’Italia al Quarto Forum mondiale dei think thank, l’altro è lo storico Osservatorio Asia, con Romeo Orlandi.

Proprio oggi, nella Great Hall of People, tra squilli di fanfare e tappeti di velluto rosso, ben 57 Paesi di cui cinque europei siglano la carta costitutiva dell’Aiib, organismo multilaterale da 50 miliardi di dollari nuovo di zecca fortemente voluto dal presidente Xi Jinping come tassello di un più ampio disegno strategico che spazia dalla Cina a tutto il resto del mondo. È la «One belt one road» che si avvale anche del «New silk fund» da 40 miliardi di dollari in private equity e, perfino, delle energie della banca dei Brics di Shanghai. L’Aib partirà realmente con il nuovo anno, ma la governance è già definita, e come ha detto ieri il futuro presidente Jun Liqun nel suo intervento a Forum dei think thank, «l’Aiib non sarà un clone delle altre banche multilaterali, ma sarà un modo per contribuire al progresso dei Paesi in via di sviluppo con infrastrutture che garantiscano la sostenibilità e anche a beneficio di quella del mercato interno cinese».

L’adesione alla nuova banca dei Paesi europei sembra legata anche al piano per le infrastrutture europee sul quale la decisione di Pechino di impegnarsi seriamente sembra un dato acquisito.

Che prezzo l’Europa intende pagare a questo supporto? «Bella domanda», dice Ian Bond, direttore del Centre for european reform, «c’è da considerare la variabile tempo, si calcola che la Germania abbia di fronte solo dieci anni di autonomia, di vantaggio competitivo tecnologico rispetto alla Cina, mentre la Gran Bretagna appoggia qualsiasi investimento anche per poter mettere in campo il proprio expertise finanziario per l’internazionalizzazione del renminbi. Lo scenario è incerto, l’Europa divisa. Poi ci sono gli altri Paesi. E la Cina ha bisogno del mercato europeo».

Tra i punti controversi che contraddistinguono le relazioni bilaterali tra Cina ed Europa c’è l’ipotesi di un «free trade agreement», la Cina ha incassato quello della Corea e dell’Australia, ma l’Europa prende tempo sulla richiesta di aprire un negoziato già fatta da Xi Jinping in persona, si preferisce puntare sul negoziato degli investimenti che, peraltro, sembra perennemente sul punto di essere in dirittura, ma siamo al sesto round e l’ottimismo dei funzionari che ci lavorano tra Bruxellese e Pechino lascia il tempo che trova. C’è la richiesta dell’esenzione dei visti per i diplomatici in un quadro Schenghen che, però, rende difficile l’applicazione “ad personam” per la Cina. E c’è il «Market economy status», la richiesta di Pechino che stando a report confidenziale di fonte Commissione Europea «attualmente soddisfa un solo requisito sui cinque stabiliti dall’Unione Europea, concesso più in un’ottica di incoraggiamento per gli sforzi compiuti che per gli effettivi risultati raggiunti da parte cinese». E, ancora: «Una concessione automatica da parte della UE, senza una previa e prudente strategia di coordinamento con i principali partners internazionali, rischia di causare gravi distorsioni del mercato globale (diversione dei flussi commerciali verso l’Europa) con conseguente invasione del nostro continente di prodotti cinesi, con irrimediabile danno dell’industria europea».

Nessuno dei principali partner commerciali europei - USA, Canada, Giappone, India – riconosce il Mes alla Cina. «Il fatto che non ci siano le condizioni oggettive per riconoscere lo status alla Cina è un dato incontrovertibile – dice il viceministro Carlo Calenda - che non viene messo in discussione da nessuno a livello europeo. La discussione verte piuttosto sul punto, squisitamente legale, se questo riconoscimento debba avvenire comunque ed automaticamente nel 2016 in forza delle clausole di adesione al WTO. Il nostro parere è che tale obbligo non sussista. Pur auspicando che la Cina completi il più rapidamente possibile la transizione ad economia di mercato, una concessione unilaterale renderebbe di fatto inutilizzabili gran parte degli strumenti di difesa commerciale oggi a disposizione dell’Europa, in primis l’antidumping, con enormi ripercussioni anche sulle aziende italiane».

Uno scenario apocalittico: l’antidumping diventerebbe un’arma spuntata, migliaia di altri posti di lavoro andrebbero in fumo, le merci cinesi inonderebbero i mercati. Comparti come la siderurgia, la meccanica, la chimica, la ceramica, la bulloneria, l’industria della carta resterebbero annientati, interi distretti, aziende di calibro, specie nel settore dell'acciaio, andrebbero in sofferenza.

La Cina è la seconda economia più grande e ora anche il più grande potenza commerciale del mondo. L’apertura del WTO le ha permesso di diventare uno dei principali trader globale - il più grande esportatore del mondo nel 2009 e la più grande potenza commerciale del mondo per somma di esportazioni e importazioni nel 2013. Tra Cina e l’Unione europea il fatturato giornaliero è di oltre un miliardo di euro al giorno, qualche anno fa era inesistente. Oggi, Cina e Ue formano il secondo più grande blocco di cooperazione economica sul pianeta, e l’aumento della Cina in Europa sarà sempre più visibile, per investimenti diretti, arrivi di turisti, mentre l’Europa è tra i primi 5 fornitori di investimenti diretti esteri in Cina. «Ecco», dice Daniel Gros – responsabile del Ceps, Centre for European Policy Studies - «non è solo questione di infrastrutture, dopo aver costruito tutto quello che c’è da costruire c’è il vuoto, se le due economie non si integrano, e se non si crea un vero e proprio mercato».

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