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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:55.

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A una settimana dal G-20 di Mosca, i cambi tornano a occupare il centro della scena nella discussione fra i policy-makers mondiali. E i dati pubblicati ieri dalle due grandi potenze esportatrici globali, Cina e Germania, offrono una nuova prospettiva al dibattito.

La Cina ha annunciato che nel mese di gennaio l'export è aumentato del 25% e l'import del 28. Si tratta di un dato mensile, ma viene letto come un segnale di ripresa del vigore del commercio internazionale, nei due sensi, del colosso asiatico e quindi di un rimbalzo dell'attività. Per una volta, al G-20, la Cina non sarà però in prima fila fra i Paesi asiatici nel bersaglio dei suoi partner, essendo stata soppianata in questo ruolo dal Giappone, con la politica dichiarata del nuovo Governo di voler rilanciare la crescita con una forte iniezione monetaria, indirettamente attraverso una svalutazione dello yen che è già in corso.

La Germania ha dichiarato nel 2012, anno di domanda mondiale debole, un surplus commerciale di 188 miliardi di euro: è il secondo più alto negli ultimi sessant'anni. L'export ha toccato il record di 1.097 miliardi di euro. Il surplus delle partite correnti, secondo Riccardo Barbieri, di Mizuho, dovrebbe aver raggiunto il 6,3%, dal 5,6 del 2011. Surplus o deficit oltre la soglia del 6% sono considerati di solito indesiderabili, anche se si tende a concentrarsi di solito sui Paesi in deficit. Nel mese di dicembre sia export sia import complessivi sono calati, ma nei confronti dei soli Paesi dell'eurozona, le esportazioni sono scese del 2,1%, mentre le importazioni sono aumentate dello 0,8%. Un'indicazione di un inizio di riequilibrio all'interno dell'area euro, che conferma i dati provenienti da Spagna e Portogallo? Troppo presto per dirlo.

Certamente, nelle ultime settimane è venuta alla ribalta la questione dell'euro forte, sollevata dal presidente francese François Hollande. Persino la Banca centrale europea, solitamente restia a diffondersi in commenti sui cambi, lo ha inserito fra le possibili cause di rallentamento dell'inflazione e il presidente Mario Draghi ne ha parlato diffusamente giovedì in conferenza stampa: senza sbilanciarsi troppo, ma facendo capire che la Bce segue il cambio attentamente e che se il rialzo dell'euro dovesse influenzare la stabilità dei prezzi l'Eurotower sarebbe pronta ad agire.

Morgan Stanley calcola che un apprezzamento dell'euro del 10% tagli la crescita dell'eurozona dello 0,5% nel primo anno (il rialzo dai minimi di luglio è ora del 15%). Dato che l'economia è già in recessione, c'è il rischio di far abortire anche la graduale ripresa prevista dalla Bce per il secondo semestre. Lo stesso Draghi ha indicato che la questione dei cambi sarà all'esame del G-20, ma di non ritenere che per ora ci sia una corsa alle svalutazioni competitive, piuttosto un tentativo di rilanciare le rispettive economie, che produce effetti sulle valute. Il rialzo dell'euro, del resto, dipende anche dall'azione della Bce, che, osserva uno studio di Société Générale, da un lato ha ricostruito la fiducia nella moneta unica e quindi compresso gli spread, dall'altro prodotto un rialzo dei tassi a breve, generato dai primi rimborsi del Ltro e dalla "chiusura" di gennaio a un taglio dei tassi.

Il rafforzamento dell'euro ha però conseguenze anche all'interno dell'eurozona, rischiando di acuirne nuovamente gli squilibri. Deutsche Bank calcola che per gli esportatori tedeschi, più competitivi la «soglia della sofferenza» con l'euro forte è a 1,54 sul dollaro, per la Francia a 1,24, per l'Italia a 1,17. Conclusioni analoghe da Morgan Stanley, secondo cui la parità teorica è a 1,33 per la media dell'area euro, ma all'1,53 per la Germania, a 1,23 per la Francia, a 1,19 per l'Italia. Euro quindi, ai livelli attuali, appunto attorno a 1,33/1,34, ancora sottovalutato nel primo caso, largamente sopravvalutato negli altri due. Non a caso, il Governo tedesco ha già espresso tutto il suo scetticismo sull'attivismo di Hollande in favore di un euro più debole.

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