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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:20.

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Mi sembra interessante riportare alcune annotazioni che Filippomaria Pontani ha voluto sviluppare nel suo stupendo saggio d'apertura al Meridiano dedicato ai Poeti greci del Novecento, curato insieme a Nicola Crocetti.
La prima, a differenza di quanto ormai accade in Italia sin dalla sua formazione di Stato unitario, afferma che in Grecia «la poesia ha goduto di una considerazione e di un rispetto pubblico paragonabili a quelli di pochi altri Paesi» e aggiunge: «Che la poesia goda di un singolare prestigio traspare anzitutto dai suoi echi nel discorso pubblico (financo nei titoli dei giornali), dai reading organizzati a ogni livello, dalla popolarità di alcuni testi recitati o cantati da generazioni di giovani (...), dalla gelosa fierezza con cui l'uomo della strada serba la memoria dei cantori del suo Paese» e inoltre: «La poesia in Grecia non si è ridotta all'espressione anarchica e monodica di un sentimento personale, non si è confinata nell'ardua lirica d'avanguardia, né ha smarrito i vincoli spazio-temporali con il mondo esterno. Al contrario i versi sono rimasti ben piantati entro un quadro di riferimento collettivo, a cominciare dal loro carattere saliente: la lingua». E ne ho avuto un riscontro, quando ad Atene e poi a Tiros sono stato invitato a leggere poesie – specialmente a Pyrgos a un pubblico popolare riunito nella piazza del paese.
Certo, nel leggere Pontani, sembra di riascoltare De Sanctis o Graziadio Ascoli o gli illuministi lombardi prima della sciagurata scelta neoclassica e poi fascista che ha imposto al popolo italiano una lingua inventata dal Bembo ma dando inizio, all'Unità d'Italia, a una repressione spietata delle lingue popolari parlate dal 97,7% degli italiani.
E non si tratta solo di lingua, giacché proprio di qui ha inizio il distacco progressivo delle classi popolari dalla cultura e dalla poesia. Chi ha la mia età ricorda ancora le sottolineature negative in rosso degli scritti che contenevano anche un accenno alle lingue parlate, sia in famiglia che sui posti di lavoro – rilievi che costavano spesso bocciature e quindi di fatto limitazioni scolastiche e sociali. Ha ragione quindi Pontani a rilevare che in Grecia «la prima dignità letteraria dell'idioma "demotico" aveva di fatto coinciso con la conquista dell'indipendenza politica» e che «fino al 1975 la scelta delle parole – a scuola come in Parlamento, all'ufficio postale come sui giornali – è stata ipso facto una scelta politica, o meglio, come lucidamente argomentava Ghiorgos Seferis, "una responsabilità civile"».
Non è un caso che in Italia una simile impostazione nel considerare la letteratura, con riferimento alla poesia, l'abbia avuta Nicola Crocetti con la sua rivista «Poesia», allargando poi l'interesse, nel lodevole tentativo si sprovincializzare la cultura italiana, alla poesia degli altri Paesi di ogni parte del mondo. Anche se, come sappiamo, occorre ben altro che il lodevole sforzo di una rivista letteraria per mutare gli indirizzi di un costume sempre più decadente orientato politicamente a favorire il più alto fanatismo popolare per la canzonetta e per quel degradante mezzo televisivo, con le conseguenze morali e sociali che ben conosciamo.
Leggiamoli, dunque, questi poeti greci contemporanei, e cominciamo da Ghiannis Ritsos: «Scesero con le divise a brandelli, con vecchi fucili / senza pane nello zaino senza pallottole. / Si chiudevano i varchi alle spalle solo con piccoli fiumi incolleriti. // Avevano marciato mesi e mesi su pietre sconosciute / sulla neve assieme ai loro ulivi e alle loro vigne / qualcuno lasciò una gamba o un braccio lassù / qualcun'altro una gran parte dell'anima».
Ritroviamo in questi versi anche le nostre vicende, i dolori e gli orrori della nostra guerra; così come ritroviamo nei versi di Titos Patrikios qualcosa della nostra società e della nostra vita politica, e un insegnamento per tutti noi: «Quando parlano nei caffè / di amori, di libertà o cose simili, / come dire loro dell'amore distrutto / che resiste persino nell'isolamento, / della giustizia che si fa nel caos / di migliaia d'insulti e violazioni, / come dire loro della libertà che si conquista solo / dalle profondità di carceri asfissianti / che imprigionano ogni ora della nostra vita».
E non sono del tutto attuali, anche se pare che siano mutati i simboli esteriori delle ideologie del potere, questi versi di Michalis Katsaròs? «Resistete all'Ufficio Stranieri e passaporti / alle orrende bandiere nazionali e alla diplomazia / alle fabbriche di materiale bellico / a quelli che definiscono lirica le belle parole / ai canti marziali / ai lamenti delle canzoni sdolcinate / agli spettatori / al vento / a tutti gli indefferenti e i saggi / agli altri che si definiscono vostri amici / persino a me, pure a me che vi racconto resistete. / Forse allora ci avvieremo sicuri verso la libertà».
È una storia della poesia greca, ma è un poco anche la nostra storia e di altri, tanti, popoli. Tratta il Novecento, ma potrebbe dilatarsi il significato ad altre epoche, da Dionisios Salamòs a Aristotelis Valaoritis fino ai nostri giorni con Kikì Dimulà e Michalis Ganàs, attraverso Seferis e Kavafis, i poeti che abbiamo citato, e altri ancora sino a formare un vero e proprio affresco anche delle nostre speranze e delusioni del far crescere la coscienza dell'uomo.
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poeti greci del novecento a cura di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani Mondadori, «I Meridiani», Milano pagg. 2.896| € 65,00

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