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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2012 alle ore 08:15.

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Apollo Korzeniowski, il padre di Joseph Conrad, traduceva Shakespeare e Dickens in polacco, ma al figlio consigliò di conoscere bene, oltre quella nazionale, la letteratura francese. Così fu solo a vent'anni, quando cominciò a navigare nei mari del Sud e dell'Oriente con i brigantini britannici, che il ragazzo si appassionò ai classici e ai contemporanei di quella che sarebbe diventata la sua lingua di scrittore. Non senza problemi. Anche dopo aver pubblicato nel 1898 un capolavoro come Il negro del Narciso confessò al suo editore W.E. Henley una grande difficoltà: «Quando scrivo penso in francese e poi traduco in inglese le parole dei miei pensieri. Questo è un procedimento impossibile per uno che desidera guadagnarsi da vivere scrivendo...». Decise dunque di trovarsi un collaboratore, una sorta di consulente linguistico-letterario e la scelta cadde su un giovanotto di belle speranze e molte ambizioni, uscito per vincoli di sangue dall'ambiente sofisticato e nervoso dei pittori preraffaelliti, Ford Madox Ford. Fu proprio quest'ultimo, alla notizia della morte dello scrittore nell'agosto del 1924, a raccontare le tortuose vicessitudini della strana collaborazione in un ritratto scritto a caldo, e forse un po' fantasiosamente, dell'amico defunto: Joseph Conrad, A personal remembrance (tradotto in italiano vent'anni fa in un volume curato da Vita Fortunati per l'editore Gallio). I due sembravano fatti per non incontrarsi, e comunque per non andare d'accordo, nemmeno fisiognomicamente.
Poco prima della fine del secolo, quando si presentò nel cottage della campagna del Kent per conoscere il suo collaboratore, Conrad era un quarantaduenne che aveva molto vissuto, era piccolo di statura e prosciugato dalla vita di mare, aveva il viso scavato e appuntito, la carnagione e i capelli scuri e portava il pizzo ben curato come un gentiluomo della Mitteleuropa. Ford, venticinque anni, aveva l'aspetto e tutte le caratteristiche dell'artista vittoriano dall'incarnato esangue, era un po' pingue, e sempre elegantemente preda delle proprie manie e passioni. Conrad credeva soprattutto nel destino e nel coraggio individuale, Ford aveva un discontinuo e a volte rovinoso ma molto attivo senso dell'impresa, che lo portava a sfornare romanzi e a produrre riviste (negli anni dieci del Novecento avrebbe fondato «The English Review» e negli anni Venti a Parigi accolto nella sua «Transatlantic Review» il meglio della nuova narrativa occidentale, da Joyce a Hemingway).
Non andavano d'accordo neppure sugli incipit: Conrad preferiva un incipit drammatico, che secondo Ford aveva lo svantaggio che poi bisognava tornare mestamente indietro a introdurre personaggi e situazioni; Ford preferiva salire di tono dopo un inizio in sordina, che secondo Conrad rischiava di lasciare il lettore indifferente, il lettore essendo per entrambi la prima, anzi primaria, preoccupazione. Pure, malgrado o in virtù di tante differenze, i due diventarono amici e reciprocamente consulenti per circa dieci anni, traghettando, in lunghe conversazioni nel cottage del Kent che l'inglese aveva affittato al polacco, l'idea del romanzo lungo la spinosa frontiera tra l'Ottocento e il Novecento, alla ricerca della forma perfetta e insieme della parola esatta, anzi: della forma perfetta attraverso la parola esatta. E scrissero anche alcuni testi più o meno a quattro mani (in realtà si leggevano e correggevano verbalmente a vicenda): Romance, The Inheritors e un singolare racconto meno conosciuto dei precedenti intitolato La natura di un crimine, ora tradotto per la prima volta in italiano a cura di Angelica Chondrogiannis.
Si tratta di un lungo monologo apparso sotto falso nome una prima volta nel 1909, proprio mentre il sodalizio tra i due si stava incrinando, e poi ripreso con entrambe le firme nel 1924, pochi mesi prima della morte dello scrittore polacco, con una doppia prefazione in cui ognuno accompagnava il piccolo testo a modo suo. «Per anni la consapevolezza di questa piccola collaborazione è stata molto vaga, quasi impalpabile, come le visite fluttuanti di un fantasma», scrive nella sua prefazione Conrad, definendo la composizione «un frammento per sua natura profonda e anche per necessità», e dichiara che passa la penna a Ford con la speranza di essere contraddetto, poiché, spiega, «sarebbe incantevole percepire l'eco delle liti disperate, appassionate, dotte e divertenti che animavano quei giorni andati». Ford non lo contraddice, e gli rinnova invece tutta la sua ammirazione. Ma entrambi su un aspetto concordano, e il vecchio scrittore in punto di morte trova come sempre le parole giuste: è un testo che emerge «dalle profondità di un passato lontano da noi come le lunghe redingote dalle falde squadrate nelle quali viveur spregiudicati, raffinati, di nobili sentimenti come i sottoscritti, svolgevano le proprie attività lavorative e coltivavano il piccolo fiore blu del sentimento». Il libretto è una lunga ultima lettera, o meglio una serie di ultime lettere, che un amante appassionato scrive alla donna lontana che sempre ha desiderato e mai posseduto per confessarle la propria doppia natura di rispettabile gentiluomo e accanito truffatore. Nella lunga sequenza epistolare i colpi di scena psicologici si susseguono come era naturale per Conrad ma soprattutto per Ford, per il quale non c'era affermazione fatta se non per essere smentita e non c'era verità che non ne contenesse una ulteriore, come nel suo capolavoro, Il buon soldato. La confessione del viveur, se non è come sembra all'inizio un addio alla vita, è però certamente un addio: al mondo vittoriano, con i suoi privati vizi e le sue pubbliche virtù, ma anche al romanzo ottocentesco, alle sue forme corpose e alle sue certezze etiche che il nuovo secolo si preparava a disconoscere.

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