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Comuni, il risveglio degli investimenti

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pubblica amministrazione

Comuni, il risveglio degli investimenti

Un cambio di rotta drastico. L’anno scorso i pagamenti dei Comuni nelle spese di investimento sono cresciuti del 16,5% sull’anno precedente, interrompendo una serie negativa che durava da anni e che aveva rappresentato una delle malattie più gravi del Patto di stabilità: lo sanno bene le imprese dell’edilizia, che spesso si sono trovate a vedersi liquidare le fatture mesi o anni dopo l’esecuzione dei lavori.

Nello stesso 2015, le spese correnti dei sindaci sono diminuite del 4,6%, frenate dalle uscite per il personale che, strette tra blocchi al turnover e agli integrativi, hanno registrato una flessione del 10,4 per cento.

Numeri come questi non indicano certo che tutti i nodi sono sciolti, ma che nel complesso il cambio di direzione c’è stato: i quasi 12,6 miliardi pagati dai Comuni nelle spese di investimento rimangono comunque lontani dai livelli raggiunti negli anni migliori, ma l’inversione di tendenza è stata significativa. Le cifre che riportiamo in questa pagina, prima di tutto, non misurano le intenzioni scritte dalle amministrazioni locali nei loro bilanci, ma i soldi che sono usciti davvero dalle casse pubbliche, censiti dal sistema telematico del ministero dell’Economia. Più che di scelte politiche, insomma, si tratta di azioni pratiche, rese possibili prima di tutto dal cambio di contesto. Ma che cosa è accaduto nel 2015?

In pratica, è il Patto di stabilità ad aver cambiato pelle. Per anni i vincoli di finanza pubblica imposti dalle varie manovre ai Comuni si sono concentrati sui pagamenti in conto capitale, cioè quelli relativi agli investimenti, trasferendo sulle spalle delle imprese quello che nei fatti era un debito pubblico mascherato. L’anno scorso, però, con il debutto della riforma della contabilità, i sindaci hanno potuto di fatto decidere in autonomia l’obiettivo del proprio Patto, per un meccanismo tecnico che però merita di essere capito dopo che le vecchie norme hanno creato discussioni infinite fra imprese ed enti locali, e soprattutto hanno assestato colpi a ripetizione sulle possibilità di crescita delle economie locali. La riforma, in sintesi, chiede ai Comuni di congelare un fondo di garanzia proporzionale alle mancate riscossioni di tributi e tariffe, per evitare di finanziare spese reali con entrate teoriche, e (qui sta il punto) permette di scontare dal Patto gli importi bloccati in questo fondo. Il Patto dava a ogni Comune un obiettivo di saldo, crescente negli anni, ma il fondo ha cambiato le carte in tavola: se l’obiettivo “lordo” del Patto 2015 era +100, ma il Comune ha bloccato nel fondo 60, il target reale è sceso a +40. Nel fondo di garanzia i Comuni hanno messo circa due miliardi e mezzo, che nel complesso hanno abbassato gli obiettivi di Patto di oltre il 60 per cento.

Un sistema come questo non è esente da rischi, perché alleggerisce i vincoli nei Comuni che hanno più difficoltà a riscuotere le entrate, e quindi finisce per dare più libertà di spesa a chi non ha i soldi per sfruttarla. Trattandosi di dati di cassa, i numeri delle singole città possono essere influenzati da situazioni particolari, come una grande opera sviluppata negli anni precedenti (per esempio, la metropolitana 5 a Milano) che si traduce quindi in una flessione della spesa nel 2015. Nel complesso, però, le cifre dicono che il meccanismo ha funzionato e ha prodotto una crescita dei pagamenti effettivi soprattutto al Sud, dove avevano raggiunto livelli minimi e dove i tempi di attesa per le imprese si erano allungati all’infinito. Da questo punto di vista, il sistema ha funzionato anche meglio dei vecchi sblocca-debiti, perché si è concentrato sulla spesa per investimenti e ha offerto ossigeno importante ai sistemi economici locali.

Ora, accanto ai pagamenti, bisogna liberare i progetti di nuovi investimenti. La sfida è a carico del nuovo pareggio di bilancio, che da quest’anno manda in pensione il Patto di stabilità: i suoi effetti, però, cominceranno a essere misurabili solo nei prossimi mesi.

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