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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2013 alle ore 06:39.

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Serve un «radicale cambiamento della politica europea», perchè «di solo rigore si muore». Facendo perno sul manifatturiero: «l'industria italiana è viva e lotta per il destino dell'intero paese, non per se stessa». Giorgio Squinzi parla all'assemblea di Assolombarda, nel cuore di quel «grande Nord che aveva valori di prestazione del tutto vicini a quelli tedeschi». Dopo questa crisi «ci ritroviamo con un disastro occupazionale anche nel Nord».

Lo spread è migliorato, ma gli altri indicatori restano negativi: da giugno scorso l'industria ha perso 100 milioni al giorno, come se avesse chiuso un'azienda media ogni 24 ore; la produzione industriale è in calo da 20 mesi; la disoccupazione è oltre il 12%, quella giovanile oltre il 40. Da «europeista convinto» il presidente di Confindustria ha duramente criticato la politica europea, anche all'assemblea degli industriali di Vicenza: «I tempi sono strettissimi, l'Europa si è accanita con una politica di rigore a dir poco miope, dimenticando che solo la crescita può sostenere il rigore finanziario». A riprova di queste scelte «discutibili», il paese considerato più competitivo, la Germania, cresce secondo il Fmi solo dello 0,4. Tutte le aree mondiali stanno crescendo tranne l'Europa. «Se il rigorismo e l'austerità mettono in ginocchio la tenuta sociale e il patrimonio delle nostre imprese affinchè altri possano fare shopping portandosi a casa i nostri pezzi migliori a prezzi di saldo, la soluzione si trasforma in problema e dobbiamo dire di no», è l'allarme di Squinzi. E ancora: «la vulgata monetarista, il credo europeo dell'austerità senza crescita ha finito con il travolgere anche il rapporto debito/Pil», ha insistito il presidente di Confindustria, prendendo a riferimento il periodo del governo Monti: «Quando si è insediato il rapporto debito/Pil era al 117, adesso siamo al 127 e le proiezioni di quest'anno ci portano almeno al 132». Il Paese non si è ripreso. E Squinzi non ci sta alle critiche arrivate al sistema imprenditoriale: «il Pil nazionale dipende in primo luogo dalle scelte di politica economica», l'Italia non cresce «perché ha esasperato e irrigidito politiche e norme oltre ogni limite sopportabile. Anche il recepimento delle direttive Ue avviene in modo restrittivo, quasi autopunitivo.

L'iper-rigidità normativa ha portato ad un'implosione del nostro mercato interno» ed ha reso «pressochè impossibili gli investimenti». E ancora: «l'innovazione nelle imprese non emerge, ma c'è. I mali non vengono dalla specializzazione non competitiva. Noi che avremmo, come scrive il Commissario Olli Rehn, un modello industriale obsoleto, non siamo il male, siamo la soluzione», ha detto Squinzi, citando il record dell'export manifatturiero 2012; la nostra seconda posizione in Europa come paese manifatturiero, la quinta come surplus manifatturiero del G-20; un export cresciuto più della media del G-7, nel breve e nel medio-lungo termine. «Questa sarebbe l'industria che non prende l'aereo e non parla inglese? Solo l'Italia viene considerata poco competitiva e censurata per bassa crescita. Qualcosa non torna».
Soffriamo un gap sul terziario ad alta intensità di sapere, «dobbiamo superarlo, ma si pagano ritardi dei decenni passati». C'è però fermento di nuove imprese e nuovi imprenditori. «Non siamo tornati indietro di quasi vent'anni perchè le imprese non sono capaci di produrre, ma perché non hanno più mercato per i loro prodotti», ha detto Squinzi riferendosi a quello interno. «Se il mercato interno non va, stretto da rigore, assenza di credito e conseguente blocco degli investimenti, il Pil per definizione crolla, senza responsabilità delle imprese industriali. Viene meno l'occupazione, con gli errori strategici commessi». Casi come quello dell'Ilva non aiutano e «possono avere ricadute gravissime sull'intera manifattura». La ripresa arriva dalle aziende sane, occorre pagare i debiti della Pa e ridurre il costo del lavoro. «Da questo clima di coesione nazionale si può ripartire e noi come imprese ci saremo. Dobbiamo cambiare in profondità la politica economica del nostro paese, ma è anche cruciale correggere il tiro a Bruxelles, altrimenti non ne usciamo».

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