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Questo articolo è stato pubblicato il 03 gennaio 2012 alle ore 06:39.

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L'11 gennaio la Corte costituzionale si riunirà per valutare l'ammissibilità dei due quesiti referendari proposti per l'abrogazione della legge "Calderoli" n. 270 del 2005 ("Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica").

Entro pochi giorni dunque sapremo se il referendum potrà essere indetto per la primavera del 2012, o se invece il tema della legge elettorale tornerà ad essere dominio riservato del Parlamento e degli interessi e dei conflitti partitici: con il forte rischio, in questo caso, che, alle prossime elezioni politiche, siamo costretti ancora a votare con un sistema che da tante parti e con rara concordia viene giudicato pessimo.

La giurisprudenza costituzionale sull'ammissibilità dei referendum ha, nel tempo, elaborato molteplici criteri e indirizzi, non sempre convincenti e coerenti, sulla cui base si è dato il via libera, o invece si sono bloccate, le consultazioni popolari.

In tema di leggi elettorali, chiarito una volta per tutte che non si tratta di materia sottratta al referendum (sentenza 47/91), la Corte ha fondato le sue decisioni su due pilastri: la richiesta di un ben individuabile "fine intrinseco" della richiesta di abrogazione, e l'esigenza che l'eventuale abrogazione referendaria non determini un vuoto di disciplina tale da impedire di eleggere gli organi costituzionali, per non paralizzare il sistema nell'eventualità che il Parlamento non provvedesse a sostituire tempestivamente la disciplina abrogata. Si potrebbe, in astratto, discutere dell'esattezza di questi criteri, specie del secondo, invocando il potere-dovere del Parlamento di sostituire, ove necessario, la disciplina legislativa abrogata. Ma è del tutto improbabile che la Corte si allontani dalle vie fino ad oggi seguite in materia.

Nel caso presente, del resto, i promotori, ben consapevoli di questa giurisprudenza, hanno proposto due quesiti, tendenti in sostanza al medesimo scopo: cancellare le novità introdotte dalla legge "Calderoli" del 2005, ripristinando per intero la normativa preesistente recata dalle leggi del 1993. Il "fine intrinseco" dei quesiti è molto chiaro. Tutto dunque si gioca sulla idoneità o meno dell'eventuale referendum a ottenere quel ripristino, invece che a creare semplicemente un vuoto, con conseguente "rischio di paralisi" del sistema.

Si potrebbe osservare semplicemente che la legge "Calderoli" ha proprio il contenuto, reso evidente fin dal titolo, di introdurre "modifiche" alle leggi elettorali preesistenti. Se voglio cancellare le "modifiche", significa che voglio tornare al testo a suo tempo modificato.

Ma la discussione si impernia su un tema teorico: abrogare disposizioni che a loro volta ne hanno abrogato altre preesistenti produce o non produce la "reviviscenza" di queste? Si scomodano le costruzioni offerte dai giuristi alla ricerca della risposta, e si osserva che l'effetto abrogativo delle norme si consuma istantaneamente, così che quando le nuove norme vengono a loro volta abrogate, di per sé le precedenti non rivivono.
A me pare che dal punto di vista logico nulla in realtà osti a configurare anche un effetto di ripristino, se questo è il senso dell'abrogazione che si vuole disporre e si dispone. Abrogando la norma B, che a sua volta aveva abrogato la norma A, posso perseguire e raggiungere solo il fine di far venir meno la disciplina recata da B (e normalmente sarà in effetti così), ma posso anche includere nella volontà abrogativa la "clausola abrogante" che aveva fatto venir meno la norma A, e perciò determinarne il ripristino per il futuro.

Sono conseguenze entrambe possibili. Non c'è un ostacolo logico che imponga di escluderne una. Si tratta di vedere quale è, in concreto, il fine e dunque la portata dell'abrogazione cui si procede.

Non si dica che il referendum abrogativo per natura può solo cancellare norme, non porle positivamente. Ogni abrogazione produce necessariamente anche effetti "in positivo" nell'ordinamento, che, essendo unitario e necessariamente coerente, "reagisce" alla cancellazione di una norma provocando l'operare, sugli stessi oggetti, di altre norme (ad esempio, caduta una norma speciale, si espande la portata di una preesistente norma generale). Anche l'abrogazione referendaria opera in questo modo.

Allora occorre ragionare a partire dall'altro principio che proprio la Corte ha affermato in tema di referendum sulle leggi elettorali: abrogare è possibile, ma purchè non si lasci il vuoto, bensì un'altra disciplina sufficiente a regolare l'elezione delle Camere. Proprio perché c'è questo vincolo, l'abrogazione della legge che ha recato modifiche a quelle preesistenti può e deve intendersi come volta a sostituirla con le norme preesistenti. La necessità che esista una legge elettorale applicabile dovrebbe indurre la Corte a identificare l'effetto "necessitato" (ed esplicitamente perseguito dai promotori) dell'abrogazione totale della legge di "modifiche" nel ripristino delle leggi precedenti. Altrimenti, la pur affermata ammissibilità, in generale, di referendum abrogativi aventi ad oggetto le leggi elettorali resterebbe affidata alla possibilità, del tutto casuale e aleatoria (perché rimessa oltre tutto alla tecnica con cui le disposizioni sono redatte), che, operando cancellazioni parziali sulla legge esistente, si riesca a lasciare in vita un corpo di norme ancora funzionante. Un risultato, lo si ammetta, poco ragionevole.

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