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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2012 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 21 giugno 2012 alle ore 07:30.

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Let's twist again, potrebbe cantare oggi la Fed, come il mitico Chubby Checker degli anni Sessanta. Di fronte al peggiorare del quadro macroeconomico, la banca centrale americana ha deciso ieri di pigiare ancora più decisamente sul pedale dello stimolo monetario.

La decisione era nell'aria: l'operazione twist, basata sulla vendita di titoli a breve e il contemporaneo acquisto di titoli a lunga scadenza, si conclude alla fine di questo mese e dunque era naturale attendersi o una sua nuova versione oppure un qualsiasi altro intervento. Ma è bene ricordare che finora la Federal Reserve non ha certo risparmiato sulle munizioni. Ha portato i tassi di interesse a breve vicino allo zero, annunciando che ci rimarranno sino alla fine del 2014 e nello stesso tempo ha acquistato titoli per 2mila miliardi di dollari, nell'intento di mantenere basso anche il livello dei tassi a lungo termine. L'effetto complessivo è stato quello di ridurre significativamente il costo dell'indebitamento non solo per il settore pubblico, ma anche per famiglie e imprese.

L'ortodossia monetaria era stata abbondantemente superata e poteva giustificare una scelta di attesa, tanto più che il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney, ha più volte criticato le scelte attuali della Fed e ha esplicitamente dichiarato che una seconda fase di operazione twist porterebbe più danni che vantaggi. La Fed ha invece deciso di agire subito, con un intervento articolato, la cui caratteristica più evidente è il chiaro intento di incidere in modo sostanziale sulle aspettative.

Non a caso, la vicepresidente della Fed, Janet Yellen, pochi giorni fa ha dichiarato che «può essere opportuno assicurarsi contro eventi negativi che possono spingere l'economia in una spirale negativa difficile da arrestare». La decisione non mancherà di avere una eco immediata nei leader europei, che continuano ad affermare di voler trovare misure per ridurre il costo dell'indebitamento, che per la Spagna (oltre che per gli altri Paesi periferici) è arrivato a livelli che non solo rendono impossibile la stabilizzazione del debito pubblico, ma tolgono ossigeno a tutta l'economia privata. E noi siamo pericolosamente vicini a quel livello.

Purtroppo è difficile prevedere un miglioramento a breve, anche perché la grande iniezione di liquidità ottenuta con le operazioni a lungo termine della Bce (Ltro) ha ormai esaurito i suoi effetti e comunque aveva anche un altro scopo: quello di rimediare ai problemi delle banche europee in materia di funding, un altro aspetto di debolezza dell'Europa rispetto all'America. Al di là della maggior domanda di titoli pubblici che ne è derivata, l'effetto sui tassi di interesse è stato quindi del tutto transitorio.
Un'altra ondata di Ltro non è più proponibile e non è giusto chiedere alla Bce di togliere le castagne dal fuoco ai politici europei bloccati dalle gelosie nazionali. Dunque, l'Europa deve prendere una decisione finalmente coerente con la gravità della situazione e capace di rovesciare le aspettative negative sul vecchio continente. Aspettative che ormai non si orientano più verso una rottura traumatica e immediata, ma verso un lento e inesorabile peggioramento fino all'inevitabile tracollo. E non si sa quale sia lo scenario peggiore.

Il problema non è solo lo strumento tecnico da adottare, ma la credibilità dell'intervento, che è data dalla quantità delle risorse che si intendono mettere in campo e dalla tempestività dell'azione. Basti pensare a quello che è successo per quanto riguarda i problemi delle banche americane ed europee. Là il problema è risolto, nonostante si trattasse della culla della crisi finanziaria. Qui invece siamo ancora in mezzo al guado. Ma gli interventi sono stati completamente diversi. Fin dal settembre 2007, gli Stati Uniti hanno buttato sul piatto della bilancia ben 700 miliardi di dollari per la ricapitalizzazione delle banche e meno di due anni dopo hanno condotto un severo stress test dichiarando fin dall'inizio che le banche che lo avessero fallito avrebbero ricevuto capitali pubblici, anche a costo di essere nazionalizzate. Gli europei sono intervenuti in ordine sparso sulle banche che di volta in volta si trovavano in difficoltà, guidati solo da esigenze nazionali e mai in base a un disegno comune; hanno condotto tre stress test, senza dire cosa sarebbe successo alle banche che avessero dovuto presentare un deficit di capitale, con ciò costringendole a ricorrere al mercato nelle condizioni peggiori possibili; e per completare il quadro hanno dato alla fine 100 miliardi alle banche spagnole a condizioni che ancora non sono ben chiare.

Insomma, gli Stati Uniti battono l'Europa tre a zero: sul piano della tempestività dell'azione; sul piano della dimensione delle risorse messe in campo; sul piano della coincidenza temporale fra le esigenze di ricapitalizzazione delle banche e lo stanziamento a carico del bilancio pubblico. L'incapacità europea di dare risposte adeguate alla gravità della crisi costringe ogni volta ad alzare la posta, se si vuole spezzare il circolo vizioso che oggi va dal debito pubblico alle banche e da queste all'economia privata. Pensare oggi di cavarsela con una cura ricostituente del Fondo europeo o con l'ennesima promessa di una futura unione bancaria, significa ripetere le dolorose tappe che hanno visto continuamente peggiorare le condizioni del sistema bancario europeo. Occorre un salto di qualità. Come diceva Shakespeare, «ciò che conta è essere pronti». Parole sante; ahimé messe in bocca al principe Amleto.

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