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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Come perseguire una crescita efficace dovendo ridurre la spesa pubblica? L'attenzione sembra concentrarsi su tre aspetti: liberalizzazioni, rapporti di lavoro e infrastrutture. Questi obiettivi sono certo rilevanti, ma non sono sufficienti. Basta guardare alla situazione gravissima del Sud (su cui si sono espressi su queste colonne sia gli economisti Zingales e Modica sia il ministro per la coesione terrritoriale Barca il 22 e il 24 dicembre scorsi, ndr).

Gli interventi di cui si parla avrebbero conseguenze positive ma non decisive per innescare la svolta di cui c'è bisogno nel Mezzogiorno (e più in generale nel Paese), perché non basterebbero a far crescere in misura adeguata, e in tempi ragionevoli, attività di mercato solide.

Per quali motivi tali attività, non crescono a sufficienza? Fondamentalmente per due ragioni. Anzitutto, perché le istituzioni pubbliche locali e regionali non contribuiscono nella misura necessaria a fornire beni e servizi collettivi, a creare quindi quelle economie esterne di cui le imprese hanno oggi ancor più bisogno di ieri. In secondo luogo, perché le istituzioni pubbliche offrono un'alternativa assistenziale alle attività di mercato, con la crescita abnorme di aree di rendita politicamente protette, dove proliferano imprese e occupazione, e dove si è insinuata sempre più la criminalità organizzata con le sue "alleanze nell'ombra", trovando un terreno di coltura particolarmente favorevole. Alla radice di questi antichi mali irrisolti vi è una politica locale che ha utilizzato in forme esasperate le risorse pubbliche per creare consenso a breve offrendo assistenza invece di servizi e beni collettivi, ma anche una politica centrale che ha guardato al Sud come "esercito elettorale di riserva".

Una strategia efficace per la crescita richiede allora che si affrontino congiuntamente e radicalmente due questioni. La prima riguarda il funzionamento delle istituzioni locali e regionali, ma anche di quelle centrali (di cui spesso ci si dimentica). Occorre porre vincoli severi all'uso clientelare e assistenziale delle leve pubbliche regolative e di spesa attraverso un controllo più stringente del centro e della Ue (qualcosa in questa direzione è già stato fatto con i piani di rientro della sanità e si sta tentando con i fondi europei). Ciò riguarda non solo aree di competenza regionale come la sanità, o l'impiego dei fondi europei, ma anche settori di competenza prevalentemente centrale, come la scuola, la giustizia, la lotta alla criminalità.

Avviare esperienze che limitino l'alternativa assistenziale e migliorino la qualità di servizi essenziali come l'istruzione e la giustizia sarebbe dunque un'importante pre-condizione per la crescita. Bisogna però essere consapevoli che la riduzione della "manomorta" della politica creerebbe inevitabilmente delle tensioni occupazionali e sociali quanto più seriamente e efficacemente essa venisse perseguita; e che in ogni caso l'auspicabile miglioramento dei servizi pubblici fondamentali non produrrebbe automaticamente la crescita di cui c'è bisogno. Da qui la necessità di una seconda gamba della strategia per la crescita, basata su politiche attive a sostegno dello sviluppo locale che facciano tesoro degli errori del passato e avviino esperienze radicalmente innovative, peraltro non necessariamente limitate al Sud.

Nel Mezzogiorno di oggi è inutile e controproducente inseguire una generica industrializzazione a suon di incentivi. Vi sono invece molte risorse locali sottoutilizzate: beni culturali e ambientali per il turismo; conoscenze scientifiche nelle università per lo sviluppo di attività innovative; saper fare diffuso in agricoltura per produzioni specializzate a elevato valore simbolico. Insomma, ci sono opportunità che possono trarre vantaggio dalle nuove tendenze della domanda nell'ambito dei processi di globalizzazione. La capacità di cogliere queste opportunità non è legata a politiche di finanziamento pesanti, ma alla cooperazione tra attori privati, e tra questi e le istituzioni pubbliche, nel produrre i beni collettivi di cui c'è bisogno (formazione, rapporti con l'università e la ricerca, promozione, internazionalizzazione, accessibilità, eccetera).

Basterebbe usare soltanto una parte delle ingenti risorse largamente sprecate per quegli incentivi e crediti di imposta, ancora tenacemente richiesti dalle classi dirigenti meridionali, ma che per larga parte costituiscono una droga che crea assuefazione. Un "fondo per lo sviluppo locale" gestito dal centro in collaborazione con le Regioni, che si servisse di una sorta di agenzia indipendente, al riparo dalle pressioni politiche, per una stringente valutazione e selezione di progetti locali integrati, potrebbe incoraggiare gli attori nelle città a produrre quei servizi collettivi legati alla valorizzazione più efficace delle risorse (esperienze di questo tipo sono state avviate in Spagna, Francia e Germania).
Questa potrebbe essere una componente cruciale di una strategia per la crescita poco costosa e consapevole che il problema cruciale non è il finanziamento ma la maturazione e la capacità di cooperazione delle forze locali per creare quei servizi collettivi specifici per le imprese da cui dipende uno sviluppo solido e sostenibile.

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