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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2012 alle ore 12:26.

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La difficile ricostruzione della Libia. A Tripoli dopo Gheddafi regna il caos. Nella foto Misurata, al lavoro per rimuovere cartelli inneggianti Gheddafi (Reuters)La difficile ricostruzione della Libia. A Tripoli dopo Gheddafi regna il caos. Nella foto Misurata, al lavoro per rimuovere cartelli inneggianti Gheddafi (Reuters)

TRIPOLI - La vicenda del'aumento di capitale della quota libica in UniCredit è solo l'ultimo caso, anche se probabilmente il più emblematico, sulla confusione che regna nella Nuova Libia, un paese che si è liberato da un dittatura durata 42 anni e che ora sta vivendo un delicato periodo di transizione.

Detentore di una quota del 4,9% in UniCredit la Banca Centrale libica, attraverso il suo Governatore, Saddeq Omard Elkaber, ha reso noto ieri sera che diluirà dal 4,9 al 2,8% la partecipazione. «Non è il momento per investire all'estero. C'è una decisione del consiglio dei ministri. Intendo né aumenti di capitale, né iniezione di mezzi freschi negli investimenti esteri». Ha dichiarato Elkaber, che ha poi lasciato intendere che nemmeno il Libyan Investment Authority (Lya), il fondo sovrano libico, ma in realtà fino a pochi mesi fa il braccio finanziario privato della famiglia Gheddafi, sottoscriverà l'aumento di capitale. Non è tuttavia chiaro di quanto il Lya diluirà la quota, oggi al 2,5%, sempre che lo farà.

Dichiarazioni decisamente contrastanti rispetto a quelle rilasciate nelle settimane precedenti. Lo scorso 15 dicembre, quando era emerso che il governo italiano avrebbe dato il nulla osta, attraverso il comitato per la sicurezza finanziaria, allo sblocco di fondi per consentire alla Banca Centrale libica di sottoscrivere, pro quota, l'aumento di capitale, la banca centrale libica aveva detto sì alla sottoscrizione. Lo stesso giorno il premier italiano Mario Monti aveva incontrato a Roma il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil. L'aumento di capitale , dunque, sembrava cosa fatta.

Come se non bastasse, il governatore el-Kebir lo aveva ribadito di nuovo, il 13 gennaio, quindi una settimana fa, durante una telefonata all'agenzia stampa Reuters. Alla domanda se la Banca centrale di Libia avrebbe sottoscritto l'aumento, el Kabir aveva risposto "sì", motivando la sua affermazione in questo modo " vogliamo mantenere il 4,9% nella banca"

Ieri la marcia indietro. Con la spiegazione che i fondi che stanno rientrando in Libia serviranno alla ricostruzione di un paese lacerato da una guerra durata oltre otto mesi.

Resta il Libyan Investment authority (Lya)., Ma qui le cose si fanno ancora più complicate. Gli asset del braccio finanziario della famiglia Gheddafi, che gestiva una mole di circa 65 miliardi di dollari, sono ancora sotto sanzioni. All'interno del Lya, per quanto ci siano cariche ufficiali, è difficile comprendere che cosa stia accadendo. In gioco ci sono diverse ipotesi. Al momento stanno decidendo i nomi che siederanno al nuovo board di gestione del fondo sovrano.

Forse è meglio attendere la fine dell'operazione di aumento di capitale, fissata il 27 gennaio. Perché gli annunci clamorosi si inseguono alle smentite. Un'altra vicenda finanziaria la dice lunga sulla diverse versioni - e in qualche caso sulla credibilità - rilasciate dalle autorità libiche. Come quando, pochi giorni fa, il ministro degli Esteri Ashur Bin Khayyal aveva annunciato lo sblocco di ben 20 miliardi di dollari di asset congelati durante la repressione della rivolta destinati alla Banca centrale libica. Poche ore dopo el Kebir aveva chiarito che la banca centrale non aveva ricevuto il danaro, somma di cui non era al corrente.

In Libia, dunque , c'è ancora molta confusione. Quel che sembra credibile è la volontà delle autorità di convogliare gli assets che verranno scongelati – svariate decine di miliardi di dollari – per la ricostruzione: rinunciando così, almeno in parte, agli investimenti all'estero. Al di là della cariche ufficiali all'interno del Governo di transizione è però difficile risalire esattamente a chi gestisce il potere. E ciò accade in molti settori. La vicenda – poi rivelatasi infondata - sulla supposta rinegoziazione dei contratti Eni, è un altro caso. A inizio gennaio il premier libico Abdel Rahim al-Kib aveva colto tutti di sorpresa con un annuncio relativo ai contratti siglati dall'Eni. «I contratti firmati tra il gruppo e il vecchio regime saranno rivisti e riesaminati conformemente agli interessi della Libia prima di essere applicati

Pochi giorni dopo la retromarcia: Nessun ridimensionamento forzoso dell'Eni in Libia E nessun gioco al rialzo sulle condizioni contrattuali relative all'attività petrolifera. Anzi, piena collaborazione sui progetti vecchi e nuovi, aveva precisato al-Kip.

Il problema di fondo - si lamentano da Tripoli alcuni imprenditori occidentali - è che il Governo di transizione, in questo momento, sembra titubante a far ripartire la ricostruzione in un momento ancora troppo incerto. La sua maggiore preoccupazione sarebbe la futura e definitiva ripartizione dei poteri. In questo stato l'amministrazione libica versa in uno stato di confusione dove l'assenza di coordinamento tra i vari uffici spesso rallenta i progetti La ricostruzione, dunque, è in gran parte paralizzata. Anche diverse le opere urgenti, come le fognature , la rete elettrica e quella idrica – a Tripoli le interruzioni di elettricità sono all'ordine del giorno – quella stradale. Ma la ricostruzione della nuova Libia resta un business troppo interessante per scoraggiarsi alle prime difficoltà.

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